Saranno 4,38 milioni gli italiani che rimarranno in smart working o lavoreranno in modalità ibrida nel post pandemia. Secondo la stima dell’Osservatorio del Politecnico di Milano si tratta di 7 volte i numeri all’inizio del 2020, quando il SarsCoV2 non era all’orizzonte. O meglio lo era, ma pensavamo stupidamente che il virus non prendesse l’aereo per fare il giro del mondo… Comunque, come ha spiegato il responsabile scientifico Mariano Corso, questa esperienza “ha fatto evolvere i modelli organizzativi del lavoro e cambiato le attenzioni di lavoratori e imprese, che hanno toccato con mano i vantaggi di modelli più flessibili”.
Ovviamente non è un dato omogeneo. Se nelle grandi imprese ci si è ormai impostati in una modalità ibrida presenza/ smart working – tanto da segnare un più 40% di lavoratori in smart working – nelle PMI e nella Pubblica Amministrazione si sono rimesse indietro le lancette del tempo. Sulla polemica del Ministro Renato Brunetta non torniamo, ne abbiamo già parlato anche noi su questo magazine. Ma dire che non hanno colto l’occasione della pandemia per abbracciare una nuova organizzazione del lavoro forse non è l’istantanea corretta. Infatti, la “polaroid” di un anno e mezzo fa già era la spia di una difficoltà a fare questo salto organizzativo per qualche settore.
Dai dati che abbiano oggi sappiamo che all’inizio della pandemia si è strutturato lo smart working nel 81% delle grandi aziende contro il 53% delle PMI e il 67% della Pubblica Amministrazione. Questi numeri rendono evidente che quando una realtà è arrivata ad avere fino a 8 dipendenti su 10 che operavano da remoto, è più semplice investire, contrattualizzare e implementare in maniera strutturata una modalità di lavoro. Anche perché, immagino, sia più forte qui la pressione dei dipendenti sugli HR per convincere i manager a non tornare indietro.
D’altra parte in Italia la gestione delle aziende è ancora di tipo molto tradizionale, i dirigenti vogliono i collaboratori in ufficio, quando magari nelle grandi aziende i direttori amministrativi hanno colto la palla al balzo per ridurre i costi. Tutti i grandi gruppi che hanno più sedi sparse sul territorio prendono in considerazione l’idea di ridurre gli spazi. Vale a Milano come a Parigi, qui è stato emblematico il caso del gruppo televisivo francese M6 (in Francia seconda solo a TF1…) che in estate ha rinunciato a ben 1.400 mq di uffici.
Chiaramente nelle PMI l’organizzazione è più accentrata, la sede spesso è unica e i costi per implementare lo smart working più alti. La Pubblica Amministrazione invece, a mio avviso, non ha un problema di costi quanto culturale, per il passaggio dal “lavoro a procedura” al lavoro per progetti. Un aspetto che avevamo già trattato in un articolo del nostro magazine lo scorso anno. Questi temi comunque ritorneranno e saranno affrontati nelle due giornate dello Smart Working Day – il 19 novembre a Milano e il 25 novembre a Roma – dove con speakers di alto livello ci confronteremo su come rendere lo smart working “utile” (riprendo una definizione dall’intervista di Samuel Lo Gioco).
Improvvisazioni, tecnostress e overworking, sono stati parte dell’esperimento e dobbiamo fare tesoro di quello che non ha funzionato per migliorarsi. A questo dobbiamo dare delle risposte, come l’associazione tra smart working e lavoro emergenziale da remoto deve essere definitivamente superata. Nessuna risposta invece meritano le Conf-qualcosa che esultano perché i lavoratori sono tornati a fare la pausa pranzo in centro. Magari ricordiamogli che “l’economia del panino” (cit. Osvaldo Danzi) non è il futuro.
Cover photo: © Manuel Berisso