Oggi cosa conta nella talent acquisition per le aziende? Avere anni di esperienza in una determinata mansione significa automaticamente essere definiti esperti in un settore? Per rispondere a questa domanda occorre fare una distinzione tra quella che viene definita experience (esperienza) e l’expertise (competenza).
Nella ricerca del lavoro - e durante il processo di recruiting - i due termini, esperienza e competenza, rischiano spesso di essere confusi tra loro, ma le aziende devono chiarire criteri di selezione e su cosa dovrà puntare la formazione del personale.
Experience.
La prima è definita come la conoscenza diretta, personalmente acquisita con l’osservazione, l’uso o la pratica, di una determinata sfera della realtà.
Il termine “esperienza” si riferisce infatti all’accrescimento di competenze e conoscenze in un determinato campo nel corso di un certo numero di anni. L’esperienza ha principalmente a che fare con i numeri e quanti anni trascorsi in un particolare campo o facendo qualcosa di specifico. Si pensi alla frequente domanda in fase di colloquio “quanti anni di esperienza ha nella mansione?” o ancora “da quanti anni svolge questa professione”. Da qui ne deriva la classificazione del personale in profilo junior (fino a 5 anni di esperienza in un determinato settore), senior (da 5 a 10 anni di esperienza) e così via.
Ma è proprio così? È davvero corretto in termini di produttività classificare il personale in base agli anni d’esperienza? Attenzione, dalla classificazione del personale ne deriva l’attribuzione del livello e la relativa retribuzione.
Expertise.
Ecco quindi la competenza è invece l’idoneità e autorità di trattare, giudicare, risolvere determinate questioni. È qualcosa che va applicata alla mansione lavorativa, è conoscenza, contesto, saggezza e flessibilità, nonché capacità di diagnosi e risoluzione dei problemi.
I nostri stessi contratti collettivi prevendono l’inquadramento dei lavoratori nei livelli professionali e retributivi che avviene sulla base delle declaratorie generali, delle esemplificazioni dei profili professionali e degli esempi. Si pensi al CCNL commercio che classifica il personale in base alla “adeguata esperienza, adeguata capacità professionale acquisita mediante ampia preparazione teorica o tecnico-pratica comunque acquisita” o ancora “lavoratori che essendo in possesso di competenze personali ed acquisite conoscenze”. In questo caso è chiaro quindi il riferimento alla competenza, e non certo agli anni di esperienza.
Cosa conta nella talent acquisition?
Sempre i contratti collettivi però premiano in base all’anzianità di servizio: si pensi al passaggio di livello o alla voce scatti di anzianità, che aumenta di importo in base alle annualità passate in azienda. O a quante volte in molte aziende il passaggio di livello, su scelta datoriale, avviene in base al numero degli anni trascorsi in azienda.
Pensiamo agli stessi annunci di lavoro, spesso leggiamo: “il/la candidato/a ideale deve aver maturato un’esperienza minima di XX anni come addetto a…”.
Resta indubbio che alcuni lavori super-specialistici richiedono inevitabilmente delle capacità e competenze che si possono acquisire solo con il tempo e l’esperienza. Ma concentrarsi esclusivamente sull’esperienza può essere forviante. Benché molto spesso le aziende pubblicizzano gli anni di esperienza - “La nostra azienda ha un 128 anni di esperienza nel settore” - restare ancorati a questa linea di pensiero può far pagare un caro prezzo.
Quelle persone che sono state nello stesso specifico settore per decenni, rischiano di perseverare nel commettere gli stessi errori soprattutto in mancanza di un adeguato e costante aggiornamento. Il più delle volte mancano della capacità di aprirsi a differenti visioni e punti di vista dei singoli problemi, soffrendo un immobilismo motivato (in parte comprensibilmente) dal rischio di carriera o dal timore del cambiamento. Pensiamo ai ruoli nell’informatica, anche il più esperto programmatore può essere scavalcato da un talento della Generazione Z che ha ben più expertise sui nuovi algoritmi.
Ecco che si afferma una volta ancora il ruolo centrale della formazione continua: le aziende devono guardarsi bene dal cadere nell’errore di dedicare troppo poco tempo a coltivare e formare i propri dipendenti più giovani, la vera risorsa aggiunta per far crescere l’azienda stessa.
Non deve quindi sorprendere più di tanto se molti giovani, dovendo spesso attendere passivamente “il loro tempo”, dovendo essere a lungo pazienti affinché il loro lavoro venga riconosciuto e valorizzato, finiscano col decidere di cambiare azienda (spesso ogni 2-3 anni). Questo riguarda tipicamente i giovani talenti, i più insofferenti nei confronti di approcci “retrò”.
In conclusione, ribadendo il ruolo essenziale della formazione, per riuscire ed affermarsi le aziende dovranno inevitabilmente investire in aggiornamento continuo e confrontarsi costantemente con chi ha più expertise, ancor prima che con chi ha più esperienza.