Quando si parla di Generazione Z e lavoro, ammettiamolo, si tende molto a generalizzare. Chi è nato tra il 1996 e il 2010 non è propenso a stare in un ufficio per tutta la vita, è disposto ad abbandonare facilmente il lavoro se non è quello che vuole fare davvero, è attento al green e tanto altro ancora. E come questa generazione così appealing per il marketing ma anche per le aziende si rapporta allo smart working?
Fermo restando che le generalizzazioni lasciano sempre il tempo che trovano, cerchiamo di analizzare qual è l’approccio dei più giovani rispetto al lavoro smart.
Prima di parlare di smart working, ad aiutarci a “entrare nella testa” dei più giovani è un rapporto curato da MCKinsey & Company datato ottobre 2022 che ha analizzato come i ragazzi statunitensi tra i 18 e i 25 anni vivano le preoccupazioni per il futuro e la possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro.
Chi è la Generazione Z di cui tanto si parla?
è indubbiamente la generazione che sta più di altre online: 6 o più ore al giorno sul telefono, curando molto la propria presenza digitale, con un’attenzione decisamente superiore rispetto a quelle che l'hanno preceduta. Ma non solo: è la generazione abituata a discutere le proprie passioni e gli interessi all’interno di community con persone conosciute solo online e che potrebbe non conoscere mai dal vivo.
Dal punto di vista lavorativo, sempre secondo McKinsey, si tratta di una generazione che vive in uno stato di grande ansia: lotta per stabilirsi economicamente e per trovare il proprio posto nella società. Apparentemente nulla di nuovo rispetto alla Generazione X e ai Millennials, eppure dobbiamo ricordare che si tratta di persone che sono entrate nel mondo del lavoro durante una pandemia globale e lo hanno fatto tra le preoccupazioni per l’aumento dell’inflazione, la recessione, i conflitti geopolitici e quel cambiamento climatico cui i più giovani sembrano tenere tantissimo.
A differenza di chi li ha preceduti, i ragazzi della Generazione Z non si aspettano che questi problemi si risolvano in breve tempo e ha dubbi profondi sulla propria capacità di acquistare una casa da soli o di andare in pensione.
La Generazione Z e lo smart working: tra solitudine e possibilità di lavorare ovunque.
E tutto questo come si rapporta allo smart working? Come lo vivono i più giovani? Stando a quanto dice la BBC e secondo alcuni esperti, lavorare in smart working non li avvantaggerebbe del tutto i più giovani anche per via del fatto che, da remoto, mancano quelle conversazioni casuali e quello scambio continuo tra chi è più “anziano” e chi è entrato da poco.
Gli ambienti virtuali, come le chat su Slack, gli incontri su Google Meet o Teams, non li aiuterebbero a capire cosa succede, a comprendere come gestire una conversazione, a cogliere il tono di quello che si dice e a ricevere aiuto e supporto nell’immediato.
Per capirne di più, lo abbiamo chiesto a due ragazzi che hanno iniziato da poco a lavorare, in due settori differenti: marketing e customer care e che ci hanno chiesto di utilizzare nomi di fantasia per non essere riconosciuti.
Chiara: “Lavorare in 30 metri quadrati non è il massimo”!
“Ho iniziato in smart working, facendo uno stage nell’ufficio marketing per poi passare a un contratto di 6 mesi”, spiega Chiara, anni 25 e con una laurea in tasca da circa un anno. “Ho fatto colloqui online, il cosiddetto onboarding e i miei tutor mi hanno seguito così. Oggi il mio lavoro è ibrido: due volte a settimana vado in azienda. Alternare lavoro da casa e lavoro in ufficio ha cambiato tutto. Prima non conoscevo nessuno e nessuno mi conosceva, anche quando dovevo scrivere delle mail a persone nuove, dovevo faticare nel presentarmi, adesso associano il mio volto al mio indirizzo di posta elettronica.
Per chi, come me, vive in un monolocale di 30 metri quadrati, lavorare da remoto non è stato e non è il massimo. So che lo smart working dovrebbe prevedere di lavorare da dove vuoi e per obiettivi, ma non è sempre così. Poi io sono sempre in call e posso farle o da casa o in ufficio”.
Matteo: “A me lo smart working dà lavoro”.
Matteo lavora come customer care assistant, anche lui 25 anni, ma la sua esperienza è diversa. “Se riesco a lavorare è solo grazie allo smart working. Vivo in una cittadina del Sud e non è facile trovare un impiego. In questo modo riesco a lavorare per una grande azienda, senza spostarmi da casa. Per essere la prima esperienza, sono molto contento: ho uno stipendio fisso, ho un contratto, ho il welfare. Certo, non sono mai andato in sede e non conosco gli altri colleghi.
Quelli con cui mi interfaccio, oltre ai clienti, li conosco solo da remoto. Tutto sommato mi trovo bene, anche se da qualche settimana si sta affacciando un nuovo problema: l’azienda vorrebbe ridurre per tutti lo smart working a 1-2 giorni a settimana. Per me vorrebbe dire rinunciare al lavoro o cambiare vita. E non so quanto sono disposto a farlo, però se me ne vado devo ricominciare da capo”.