Il divario generazionale è diventato un tema sempre più dibattuto al giorno d’oggi, anche per ciò che riguarda il mondo del lavoro. Differenze di valori, prospettive, preferenze e stili di comunicazione segnati non solo da un notevole gap tecnologico - ma anche da una diversa concezione di senso del sacrificio - causano spesso difficoltà nella collaborazione tra generazioni che convivono all’interno di uno stesso nucleo lavorativo. Il reverse mentoring è un approccio al tutoring che parte “dal basso” proprio per diminuire questa forbice.
Cos’è il reverse mentoring
Il reverse mentoring nasce alla fine degli anni ’90, quando l’ex CEO dell’azienda tecnologica General Electric®, Jack Welch, rendendosi conto di non avere sufficienti competenze tecnologiche, pensò che i giovani collaboratori dell’azienda potessero aiutare lui e i suoi colleghi senior a migliorare le proprie conoscenze. Chiese così a 500 dei suoi dirigenti di trovare un mentore tecnologico tra i neo assunti. In questo modo, lavoratori di diverse generazioni hanno iniziato a collaborare tra di loro ribaltando l’idea tradizionale di mentoring, dando spazio e responsabilità ai giovani e formando i senior su qualcosa che, in quel periodo storico, era piuttosto ostico.
L’approccio, continuando ad attribuire una figura junior a una più anziana, si è evoluto negli anni andando ben oltre il tema della tecnologia. Ha aperto il dialogo tra generazioni per ciò che riguarda questioni strategiche, di leadership e valori legati al work-life balance mixando varie risorse: i giovani contribuiscono con competenze digitali avanzate e prospettive differenti, mentre i collaboratori appartenenti alle generazioni più mature offrono saggezza, esperienza e conoscenza del settore.
Vantaggi del mentoring inverso
L’idea di adottare il mentoring inverso è una scelta strategica vincente per risultare attrattivi agli occhi delle nuove generazioni. Questo perché è uno strumento che non consente solo di ampliare le competenze tecnologiche all’interno del proprio team di collaboratori più anziani: se ben programmato, infatti, può portare benefici trasversali. Da un lato, le persone più giovani si sentiranno più coinvolte all’interno della realtà aziendale, ottenendo opportunità di leadership, sviluppo personale e responsabilità. In questo modo l'organizzazione sarà in grado di promuovere un clima di fiducia, collaborazione e apprendimento continuo tra le generazioni, eliminando i preconcetti e ormai stantii sul “troppo giovane” e “troppo vecchio” e migliorando così anche la produttività e l'innovazione.
Un altro tema importante è quello legato alla promozione di valori, della diversità e dell’inclusione, fattori ormai imprescindibili per le organizzazioni che, in questo periodo storico, devono far fronte al fenomeno dell’abbandono occupazionale soprattutto dei lavoratori più giovani. Questi, infatti, preferiscono legarsi a un’impresa che rispetta non solo il loro work-life balance, ma anche che si impegna a salvaguardare l’ambiente e l’inclusione: secondo una ricerca della società di consulenza Deloitte, se non ascoltati e a proprio agio, la metà dei millennial e dei lavoratori appartenenti alla Gen Z potrebbero abbandonare la propria azienda entro cinque anni.
Il reverse mentoring è una valida risposta a questa problematica. Nel 2014 la società di consulenza PwC ha lanciato questo tipo di programma proprio per lavorare sul tema del D&I. Un progetto che ora conta 122 lavoratori millennials che fanno da mentore a 200 partner e direttori, che si incontrano per un colloquio una volta al mese. Non solo: La società multinazionale di studi legali Allen & Overy ha lavorato a un programma simile per migliorare la comprensione dei collaboratori senior rispetto alle questioni legate alle minoranze, comprese quelle LGBTQIA+ ed etniche.
Guardando al futuro, investire in questa pratica non solo migliora la competitività delle aziende, ma contribuisce anche a creare ambienti di lavoro più inclusivi, innovativi e sostenibili per tutti.