Negli ultimi mesi, il tema della diversità e dell’inclusione è tornato al centro del dibattito. Un argomento che, più che essere discusso, noto viene spesso strumentalizzato. Da un lato, le aziende si affrettano a smantellare programmi che fino a ieri promuovevano con orgoglio, dall’altro, chiunque osi mettere in discussione il senso stesso di queste iniziative viene immediatamente additato come retrogrado, insensibile, fuori dal tempo.
Ma fermiamoci un attimo e facciamoci una domanda che pochi osano pronunciare: perché mai dovrei aver bisogno di un programma per essere incluso?
Il solo fatto che esistano strategie aziendali per la “diversità” porta con sé un’ammissione implicita: qualcuno, da qualche parte, è considerato diverso. E questa diversità è percepita come qualcosa da correggere, da compensare, da colmare con politiche apposite.
Ma non è questo, alla radice, un altro modo per sottolineare la separazione anziché annullarla?
Se fossi io a trovarmi dall’altra parte, se fossi io a portare un cartello grosso dietro le spalle con scritto “categoria protetta”, non mi sentirei di certo incluso bensì "etichettato", marchiato a fuoco dal mandriano senza pietà. Guardato con un occhio di riguardo che non ho mai chiesto.
Mi sentirei come chi riceve un invito a una festa solo perché qualcuno si è accorto all’ultimo momento che rischiavo di rimanerne fuori, allora per "educazione" vengo invitato con la classica frase "scusa del poco preavviso! Abbiamo deciso tutto così all'ultimo... se non riesci a partecipare mi dispiace molto ma capisco".
Allora continuo a domandarmi "perché dovrebbe servire un programma per includermi, quando basterebbe non escludermi?"
Se sono qualificato per un ruolo, assumetemi. Se non sono adatto, lasciate perdere. Ma non fatelo per un "principio", per una "quota da riempire", per un manifesto pubblicitario che suona bene nei report aziendali.
Il vero problema è che continuiamo a parlare di diversità come se fosse un concetto estraneo alla nostra essenza. Come se l’inclusione dovesse essere un obiettivo da raggiungere, un premio da concedere a chi ne è stato privato. Ma chi è il giudice che decide chi merita di essere incluso e chi no? Chi stabilisce i confini tra chi è “normale” e chi è “diverso”?
C’è una storia che racconta questa ipocrisia aziendale in modo perfetto. Nel romanzo “Qui non c’è niente per te, ricordi?” di Sarah Rose Etter, finito di leggere da non tanto, la protagonista, Cassie, lavora per Voyager, un’azienda che si vanta di essere all’avanguardia in tutto: tecnologia, cultura aziendale, sostenibilità, inclusione. Ma è solo una facciata.
Voyager non si interessa davvero alle persone. È ossessionata dal branding reputation, dai premi, dal riconoscimento. Il loro reale obiettivo non è creare un ambiente di lavoro realmente equo, ma essere percepiti come l’azienda che lo fa meglio di tutte le altre.
Cassie assiste a questo gioco perverso dall’interno: vedendo dirigenti vantarsi delle loro politiche inclusive come pavoni, mentre nei fatti la diversità è trattata come un trofeo, non come un valore.
Le assunzioni non vengono fatte per reale merito o volontà di abbattere le barriere, ma per accumulare punti in questa grande corsa all’approvazione pubblica. L’azienda vuole essere inclusiva sulla carta, non nella sostanza. E se vincere un premio significa licenziare o assumere qualcuno senza criterio, poco importa.
E allora, viene da chiedersi: quanto di ciò che vediamo nelle aziende che ostentano l’inclusione è autentico?
Molte aziende stanno facendo un passo indietro sui programmi di diversità e inclusione. Meta, Amazon, Google. Smantellano interi dipartimenti, annullano progetti, eliminano voci di budget che fino a ieri erano considerate imprescindibili. C’è chi grida allo scandalo, chi accusa il Mondo di tornare indietro.
Se un’azienda ha bisogno di un “programma di inclusione” per assumere una persona disabile, una donna incinta, un uomo di un’altra etnia, un candidato LGBTQ+, significa che fino a ieri non avrebbe mai pensato di assumerlo senza quel programma? Se abbiamo bisogno di un piano per includere qualcuno, allora non lo stiamo trattando come parte naturale della società, ma come un’eccezione.
Forse dovremmo riformulare la domanda. Non “perché non ci sono più programmi di inclusione?” ma “perché dovrebbero esserci stati?”
Nel Mondo delle idee, Aristotele sosteneva che la società si fonda sulla giustizia distributiva: a ognuno secondo il proprio merito e valore. In un mondo davvero equo, non ci sarebbe bisogno di riservare spazi, perché gli spazi sarebbero aperti per chiunque. Ma la realtà non è fatta solo di idee. È fatta di strutture, di pregiudizi stratificati, di culture aziendali lente a cambiare. E allora, che fare?
Forse il punto non è eliminare o mantenere i programmi di diversità. Forse il vero cambiamento sta nel non averne più bisogno.
Nel giorno in cui assumeremo una persona non perché rappresenta una percentuale, ma perché è brava. Nel giorno in cui non ci sarà più bisogno di etichette, perché la normalità sarà il rispetto delle capacità, delle competenze e del valore di ciascuno.
Perché il problema non è la diversità. È il fatto che ancora oggi sentiamo il bisogno di farci caso.