Facendo un breve giro su LinkedIn, è impossibile non notare come la sezione dedicata alla ricerca di lavoro sia piena di annunci che recitano: "La nostra azienda è come una grande famiglia" o ancora, "Manda il tuo CV ed entra a far parte della nostra famiglia." Che sia usata ingenuamente o che le venga attribuita una connotazione positiva, certo è che questa definizione, quando si parla di lavoro, è tutt’altro che funzionale: la verità è che, quando un’impresa non si comporta “da azienda” ma prova a essere qualcosa di più, molto spesso questo diventa controproducente sia per i lavoratori sia per l’organizzazione.
Azienda come famiglia: una definizione fuorviante
È fatto noto che le imprese cerchino di attrarre nuovi lavoratori mettendo in campo tutti i lati positivi e i benefit che queste possono offrire loro. Un’offerta condita di tutti i comfort e i vantaggi possibili, che spesso viene chiamata ambiente "familiare": empatia, spirito di squadra, colleghi con i quali fare amicizia e, soprattutto, un senso di appartenenza e dedizione ai grandi obiettivi aziendali. Ma, se ci ragioniamo un secondo, la domanda sorge spontanea: chi ha bisogno di un secondo nucleo familiare in ufficio? Quando rispondiamo a un annuncio di lavoro cerchiamo un impiego, non un rifugio dalla realtà domestica. Inoltre, caricare il tempo passato in ufficio di responsabilità simili a quelle familiari può sconvolgere il nostro equilibrio tra vita professionale e privata e far crollare la nostra salute mentale. Nonostante spesso chi la definisce in questo modo lo faccia con le migliori intenzioni, la verità è che il lavoro è e deve rimanere ben diverso da ciò che abbiamo a casa e questa definizione non apporta benefici a nessuna delle due parti.
La retorica della “famiglia” mette in moto dei meccanismi che alterano le normali leadership e gerarchie e non giova né alle persone né al datore di lavoro. La confidenza eccessiva può alimentare comportamenti poco professionali, confondendo i ruoli, facendo perdere di vista doveri e responsabilità e alimentando la tendenza, purtroppo sempre più comune non solo tra colleghi, ma anche con i titolari, di raccontare la propria vita privata. Una scelta non sempre ottimale se consideriamo che, tra gioie e problemi personali, gli aneddoti e le storie personali sono il primo tassello per dare il via a giudizi sulla persona che nulla hanno a che fare con la condotta all’interno dell’ufficio o con il valore lavorativo che quest’ultima può portare alla propria impresa.
Cosa fare quindi?
Sicuramente l’impegno nel coinvolgere i propri collaboratori è fondamentale: secondo uno studio di Gallup, le aziende con un coinvolgimento elevato dei lavoratori registrano un aumento del 21% nella produttività rispetto a quelle con basso coinvolgimento. La chiave è comunicare e promuovere questo coinvolgimento in modo efficace, senza ricorrere all'etichetta "famiglia". Creare un ambiente di lavoro armonico e confidenziale, mantenendo al contempo professionalità e senso del dovere, richiede il rispetto dei confini tra vita privata e lavoro. Il trucco è permettere alle persone di dedicarsi con impegno ai compiti professionali, ma anche di ricaricare le energie e godersi la vita privata per mantenere una produttività elevata. Questo approccio assicura la presenza di lavoratori seri e competenti che, pur vivendo un ambiente lavorativo rilassato, comprendono appieno la distinzione tra ufficio e vita privata. In breve, una formula vincente per un team efficiente e motivato.
Altro punto importantissimo è l’apertura al dialogo e la chiarezza riguardo agli obiettivi senza cui si rischia di rimanere bloccati nel loop dell'insoddisfazione non solo durante il periodo di onboarding, ma anche quando le persone decidono di lasciare il proprio posto. Un rapporto limpido e diretto è il tassello imprescindibile per mantenere gli equilibri ed evitare inutili misunderstanding che possono accendere un filone deleterio legato al senso di colpa e che porta i lavoratori scontenti a rimanere lavorando peggio, magari sfogandosi con i colleghi/ amici e alimentando il malcontento generale.
Promuovere l’idea di voler essere un’organizzazione forte, che si impegna a legare le persone per creare un team che si sproni con l’obiettivo di arrivare insieme a risultati positivi grazie a una cultura aziendale che si distingue è giusto, ma occhio: il trucco sta nell'utilizzare le parole e le azioni giuste, senza cadere nella trappola della retorica stantia associata alla parola "famiglia". Considerando le diatribe familiari di ognuno di noi, a lavoro non vogliamo una famiglia, ma una squadra affiatata che spinga insieme verso il successo. Anche perché la famiglia non la possiamo scegliere, ma il posto di lavoro sì.