Il web ha visto nascere e crescere multinazionali come piattaforme digitali che influenzano le nostre vite private rendendoci tutti dei dati in vendita. È il capitalismo di Big Data e i suoi padroni sono dei multimiliardari dal potere spropositato. I grandi ricchi sono sempre esistiti, eppure, la differenza tra i grandi ricchi e i poverissimi è ben più marcata oggi nei moderni regimi democratici occidentali di quanto lo fosse nella Francia dell’Ancién Regime. Non solo, nell’età digitale, i grandi capitalisti sono soprattutto “giga-capitalisti”.
Negli Stati Uniti il compenso annuale medio per un amministratore di corporation nel 2021 è stato di 18,3 milioni di dollari. Significa, per esempio, che a un operaio di Amazon occorrono 6.474 anni al lavoro per prendere lo stipendio del CEO Andrew Jassy: 212 milioni di dollari!
Con la pandemia e il boom degli acquisti online, Jeff Bezos ha aggiunto 80 miliardi al suo già notevole patrimonio. Amazon ha un fatturato di 386 miliardi di dollari ed è diventata una delle più grandi società americane al pari di realtà storiche come Exxon Mobil, General Electric o banche quali JP Morgan e Wells Fargo. Ancora, se gli utenti virtuali delle piattaforme social gestite da Meta Platforms fossero una nazione, con 2 miliardi di persone questa nazione sarebbe la più popolosa del pianeta e Mark Zuckerberg il loro presidente. Controllando i servizi di rete di Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger è a capo di un’impresa da 85,9 miliardi di dollari di fatturato.
Nella fase più acuta della pandemia, mentre si volatilizzavano 30 milioni di impieghi e da febbraio a maggio 2020 il reddito salariale perdeva complessivamente 800 miliardi di dollari, Mark Zuckerberg incrementava la propria ricchezza del 59% e Jeff Bezos del 39% come riporta un articolo di Luca Celada su Il manifesto del 26 luglio.
A differenza dei brand storici del capitalismo tech americano – General Electric, AT&T o IBM – le aziende leader di oggi della Silicon Valley hanno meno dipendenti ma più monopolio. La loro influenza è profonda nella vita quotidiana delle persone, eppure gode ancora di una scarsa regolamentazione dei loro mercati.
Big Data: il giga-capitalismo delle piattaforme digitali.
Ma come nasce il capitalismo delle piattaforme digitali? Dobbiamo considerare l’economia digitale come una piramide – esattamente come abbiamo la piramide alimentare – e comprendere cosa sta al vertice e cosa alla base. Una piramide essenzialmente “americana” che conferisce un soft power agli USA di cui ancora non abbiamo compreso tutto il potenziale, una sorta di alter ego della loro potenza militare. Al vertice abbiamo i microchip, il cuore del sistema, e un’azienda strategica che li produce su tutti: Intel. Poi sotto ci sono i sistemi operativi, Windows per Microsoft, Android per Google e iOS per Apple.
Un gradino ancora sotto troviamo i social network, li abbiamo nominati sopra i principali, che appunto fanno capo a Meta, insieme a Twitter diventata ora azienda privata. Poi troviamo i servizi e-commerce, con Amazon che fa la parte del leone e infine, alla base, i servizi finanziari quali PayPal o le piattaforme di contenuti come Netflix. Abbiamo nominato solo i più importanti e a ben vedere sono tutte realtà californiane insediate tra San Francisco e San José, con l’Università di Stanford come link intellettuale.
Uno degli strumenti del capitalismo delle piattaforme digitali sono ad esempio gli algoritmi che gestiscono l'attività delle consegne dei rider. In questo caso l'algoritmo decide i tempi di percorrenza, le consegne, e una penalizzazione qualora i rider impiegassero più tempo del calcolato nel tragitto assegnando poi loro fasce orarie di lavoro più scomode il giorno successivo. In Inghilterra il prestigioso quotidiano The Guardian aveva denunciato nel 2021 che la maggior parte dei rider guadagna appena 2 sterline l'ora.
L’algoritmo dà un punteggio a ciascun rider in base ai parametri di “affidabilità" e "partecipazione”. Si legge nella sentenza del Tribunale di Bologna che «ciascun rider viene periodicamente “profilato” tramite “statistiche” elaborate dalla società che valutano il tasso di rispetto delle ultime 14 giornate di sessioni di lavoro dallo stesso prenotate e non cancellate nel termine di 24 ore previsto dal regolamento». La giurisprudenza è sicuramente uno strumento per difendersi dalle derive del capitalismo delle piattaforme digitali.
L'attualità invece ci fa inorridire nel caso della morte del rider Sebastian Galassi, travolto da un SUV a Firenze mentre faceva una consegna, con l'algoritmo che lo ha licenziato post-mortem perché non ha portato a termine il lavoro...
Poi c'è lo scandalo degli "Uber files", riguardanti la multinazionale che fornisce il servizio di trasporto automobilistico privato attraverso un'applicazione mobile che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti autonomi. Uber ha ripetutamente fatto pressione sui politici in California e Canada per evitare normative che riconoscessero i loro lavoratori quali dipendenti. Come accusa lo scrittore Paris Marx, esperto di tecnologia, <<Uber è impegnata a invadere la privacy dei clienti e distruggere i diritti dei lavoratori>>.
Ma come è cambiato il mondo nell’era del capitalismo di Big Data? Se andiamo a osservare la storia del pianeta degli ultimi venticinque anni, troviamo che di pari passo con queste ricchezze mostruose c’è stato - come residuo dell’ideologia liberista - il definitivo smantellamento dello Stato sociale e delle tutele per i lavoratori, l’acuirsi delle diseguaglianze nella popolazione e la crescita dei partiti populisti. Non solo, il peggioramento della crisi climatica e il nuovo sfruttamento coloniale di quei paesi “poveri” ma ricchi di miniere da cui si estraggono i materiali della transizione digitale: litio, nichel e cobalto.
Come contrastare questi monopoli? Con leggi speciali, esempio il Digital Service Act appena messo a punto dalla Commission e europea, e tasse giuste a fronte degli enormi ricavi. Questa è la grande sfida degli antitrust in America e in Europa.
«In tutti gli anni in cui ho visto la Silicon Valley crescere e produrre oligarchi miliardari, ancora non ho visto uno di loro usare la ricchezza per qualcosa di veramente generoso o illuminato» ha scritto Rebecca Solnit. Non possiamo dargli torto.