Ci sono persone che parlano del lavoro come di una fatica da superare, un ostacolo da attraversare per arrivare a ciò che davvero conta: il tempo libero, il riposo, la libertà. E poi ci sono altre persone, quelle che hanno fatto del lavoro una presenza costante, una bussola silenziosa, quasi una forma di fedeltà a qualcosa che le parole non riescono a spiegare fino in fondo.
Scrivo pensando a una di quelle persone. Non lo sa — e forse non lo saprà mai — che sto parlando di lui. Ma ogni volta che lo vedo alzarsi presto, anche quando non sarebbe più necessario, ogni volta che lo vedo chinarsi su qualcosa da sistemare, da organizzare, da migliorare… capisco che il lavoro per lui non è mai stato solo un dovere. È stato — ed è ancora — un modo di esserci.
Ma questa riflessione va oltre lui. Perché, in realtà, riguarda tanti. Tanti uomini — e donne — che hanno superato gli ottant’anni, che potrebbero finalmente concedersi un po’ di riposo, godersi i nipoti, prendersi qualche sfizio o magari occuparsi solo degli acciacchi, propri o di chi hanno accanto. Invece no: scelgono di tenere vicino il lavoro. Non perché siano obbligati, ma perché qualcosa dentro li chiama ancora a partecipare.
E allora la domanda è: che cosa ci stanno insegnando?
Forse che il lavoro, quando non è più una necessità, diventa qualcosa di più. Diventa una relazione. Un dialogo col tempo, con sé stessi, con gli altri. Una forma di presenza che aiuta a non sentirsi messi da parte. Una carezza sottile alla propria identità.
E in mezzo a tutto questo, mi commuove vederlo — lui — confrontarsi con cose che non appartengono al mondo in cui ha costruito la sua carriera. La tecnologia, ad esempio. È come vedere un capitano di lungo corso alle prese con una barca a motore dopo una vita passata a vela. C'è tenerezza nel modo in cui cerca di capire dove si "setta" la stampante, come si "resuscita" il Wi-Fi, o come si entra in una call su Zoom (che già il nome lo fa sorridere).
E quando ce la fa, quando riesce a connettere tutto, quando il microfono funziona e lo sfondo non è più rovesciato… lo vedo brillare, anche solo per un attimo. Ma per pudore, per discrezione, fa finta di niente. Sorride, dice: "Beh, alla fine non era così complicato". E io, in silenzio, mi sciolgo di orgoglio.
E poi penso: se ai suoi tempi fosse esistito LinkedIn, probabilmente certi traguardi non li avrebbe mai raccontati. Non per mancanza di soddisfazione, ma perché non era quella la misura del successo. C’era la carriera, certo. C’erano le soddisfazioni. Ma c'era anche un pudore profondo. Un modo di essere che rifuggiva l’autocelebrazione. Un silenzio che parlava più di mille curriculum.
Ora che LinkedIn ce l’ha davvero, ogni tanto ho il timore che legga i miei post con quel mezzo sorriso tra l’ironia e la pietà. Chissà cosa pensa di noi, di questa generazione che racconta ogni promozione, ogni webinar, ogni pensiero pseudo-ispirazionale. Magari scuote la testa, oppure — e questo mi terrorizza di più — mi piazza un commento sotto un post. Un po’ di social bombing (si dice così)?
Eppure, nonostante tutto, il suo modo di stare nel mondo — anche in questo mondo che cambia — è ancora pieno di valore.
Quanto valore continua a dare.
E quanto valore non è visibile.