Cinque anni dopo l'inizio della pandemia, il lavoro in remoto non è più una fase temporanea o una soluzione di emergenza: è diventato parte integrante della nuova normalità lavorativa.
Nonostante i tentativi di molti leader aziendali di riportare i dipendenti in ufficio a tempo pieno, i dati raccontano una storia diversa, come evidenziato da un recente articolo pubblicato su The Economist (“WFH patterns”, 26 aprile 2025).
Non solo la quota di chi lavora da casa è rimasta alta, ma si è anche stabilizzata: secondo una ricerca di Nicholas Bloom (Stanford University) citata dall'articolo, a fine 2024 e inizio 2025, i laureati universitari in 40 Paesi lavoravano in media 1,3 giorni a settimana da casa, un dato pressoché identico all'anno precedente.
Non si tratta più di un fenomeno transitorio: è un cambiamento culturale consolidato.
La geografia del lavoro in remoto: chi lavora di più da casa?
Analizzando i dati emerge un pattern interessante: sono i Paesi anglosassoni i più affezionati al lavoro in remoto.
- I canadesi lavorano da casa in media 1,9 giorni a settimana
- I britannici 1,8 giorni
- Gli americani 1,6 giorni
Molto più indietro sono i francesi, i danesi (circa 1 giorno) e, ancora meno, i sudcoreani (mezza giornata).
Ma cosa spiega queste differenze? Non è solo una questione di settori industriali o di esperienza pandemica.
Il vero motore è la cultura nazionale: i Paesi più individualisti – come misurato dagli studi di Geert Hofstede – hanno una maggiore propensione al lavoro in remoto.
Fiducia e autonomia sono due elementi fondamentali: i dirigenti nei Paesi individualisti sembrano più a loro agio nel "allentare il guinzaglio", e i dipendenti più inclini ad autogestirsi.
E l'Italia?
Viene spontaneo chiedersi: e noi come siamo messi?
Secondo i dati più recenti:
- 9 giorni al mese di lavoro in remoto nelle grandi imprese
- 7 giorni nella pubblica amministrazione
- 6,6 giorni nelle PMI
Non siamo affatto distanti dalle migliori pratiche internazionali. Anzi, sembrerebbe che anche in Italia esista una discreta fiducia nei confronti dei lavoratori.
Curioso, considerando che su LinkedIn si legge spesso un tono molto più pessimista e lamentoso, quasi come se il lavoro da casa fosse ancora visto come un privilegio da strappare di nascosto.
I pro e i contro del lavoro in remoto
Come sempre, ogni cambiamento ha i suoi vantaggi e le sue ombre.
I benefici
Tra i vantaggi meno discussi ci sono:
- Maggior flessibilità nella scelta abitativa: con tre giorni in ufficio anziché cinque, vivere più lontano diventa sostenibile, portando a una rinascita delle periferie e a una distribuzione più equilibrata della crescita urbana.
- Riduzione dei costi aziendali: meno persone in ufficio ogni giorno significa spazi più piccoli, meno affitti e, in alcuni casi, la possibilità di riconvertire uffici in appartamenti.
- Maggiore equilibrio vita-lavoro: il lavoro in remoto consente a molti di organizzarsi meglio, con evidenti benefici soprattutto per le donne con figli.
- Una produttività più flessibile: anche fenomeni come il boom del golf a metà settimana, raccontato da Bloom e Finan, non sono necessariamente negativi: significano uso più efficiente di strutture tradizionalmente sottoutilizzate durante i giorni feriali.
Le criticità
Tuttavia, il lavoro in remoto porta anche sfide significative:
- Meno opportunità di apprendimento per i giovani: manca il "training on the job" dato dall'osservazione diretta dei colleghi più esperti.
- Perdita di relazioni sociali: il tempo risparmiato nel commuting non viene sempre reinvestito in attività sociali o di comunità.
- Rischio di solitudine: gli americani, ad esempio, passano mezz'ora in più da soli ogni giorno rispetto al 2019.
La questione non è quindi solo economica, ma profondamente sociale: come trasformiamo il tempo guadagnato dal non spostarci più ogni giorno?
Una trasformazione irreversibile?
Il lavoro in remoto non sta scomparendo. Anzi, si è normalizzato.
I trend mostrano che la pandemia ha accelerato di decenni una trasformazione già in atto.
Ora il punto non è più "se" adottarlo, ma come renderlo migliore: più inclusivo, più produttivo, più umano.
Le imprese più lungimiranti lo stanno capendo: il futuro del lavoro non sarà né 100% remoto né 100% in presenza, ma un ibrido intelligente, pensato per massimizzare i benefici di entrambi i modelli.
La rivoluzione del lavoro in remoto è silenziosa ma profondissima.
Sta ridisegnando le città, trasformando gli spazi, cambiando le abitudini quotidiane.
Come ogni grande trasformazione, presenta rischi e opportunità.
La vera sfida sarà non subirla passivamente, ma progettarla attivamente, mettendo al centro le persone, la fiducia e una visione moderna della collaborazione.
Se sapremo farlo, il lavoro in remoto potrà diventare non solo una modalità più efficiente, ma anche una leva per una società più equilibrata e sostenibile.