Bruno Conte, già speaker allo Smart Working Day 2021, è Founder e CEO della New Tech Consulting (aka NTC), una società italiana che si occupa di digital mentoring con base in Italia e “sedi” a Tallinn (Estonia) e negli USA. Ma scordatevi uffici e filiali vecchio stile dove andare a trovarli, su 65 partner tutti lavorano rigorosamente in smart working.
Esperto informatico della “prim’ora” - infatti negli anni ‘80 vanta esperienze internazionali in colossi del settore quali IBM, Digital Equipment Corporation, Perkin Elmer o Datapoint Corporation - nel 1989 ha fondato la sua prima start up e da allora non si è più fermato, sia come imprenditore che come mentore. Si definisce digital workplace strategist ed il nostro magazine l’ha intervistato per conoscere meglio lui e la NTC, che tra le realtà imprenditoriali (sono tante) di sua creazione è quella che c’entra di più con lo smart working.
Che tipo di realtà è la NTC di cui sei il leader e cosa significa fare digital mentoring?
Venti anni fa con due soci abbiamo dato vita a un’idea di consulenza strategica che avevo maturato tempo addietro. Imboccato bene il percorso, dal 2005 la prima grande svolta: abbiamo dismesso i nostri uffici di Milano e Roma per lavorare totalmente da remoto. Poi nel 2010 la seconda grande sterzata: niente dipendenti… Oggi siamo in 65, in sette nazioni, senza rapporti di dipendenza e ci ingaggiamo in maniera agile sui vari progetti.
Di fatto siamo un network professionale da 6,5 milioni fatturato e continuiamo a attrarre professionalità, da project manager a HR, da esperti informatici, umanisti tra cui annoveriamo psicologi, specialisti delle “risorse umane”, addirittura un antropologo degli ambienti digitali! Considera che 34 di loro non li ho mai incontrati fisicamente, eppure facciamo progetti, gestiamo 3.000 clienti in trenta nazioni e la cosa funziona. Questo perché ci siamo liberati di certi vecchi approcci al lavoro e siamo tenuti insieme dalle competenze.
Sicuramente siete avvezzi alla tecnologia! Ma come si fa change management tecnologico?
Abbiamo uno spazio digitale dove il cliente è “invitato” e per tutto il percorso di consulenza, oops… mentoring, lo ospitiamo sulla piattaforma, qui il nostro team e quello del cliente si incontrano e dialogano costantemente. Certo, siamo esperti di tecnologia, ma il nostro compito consiste nell’accompagnare manager e loro collaboratori ad usarla per quello che è: uno strumento.
Noi non vendiamo tecnologia al cliente, bensì accompagnamento strategico per una migliore consapevolezza del suo business, parliamo di cultura digitale, di cambiamento di paradigma. Quindi, nel minor tempo possibile e a costi sostenibili, lo portiamo con strumenti tecnologici, organizzativi e formazione a riflettere su processi aziendali incancreniti. Ad esempio, che lavorare in smart working magari lo abitua a focalizzare meglio il suo obiettivo d’impresa.
A tuo avviso la tecnologia è vissuta come un ostacolo o un’opportunità nelle organizzazioni? Il tutto estremizzato nell’era digitale…
La tecnologia può essere un ostacolo se imposta, ma è una grande opportunità, a patto che sia quella giusta e se ben introdotta e spiegata. Di “tecnologia” è pieno il mercato, quindi è importante capire lo strumento adatto al proprio business. Spesso nelle aziende c’è una pletora di strumenti e più ce ne sono peggio è, perché significa che aumentano i collaboratori che poi non sanno usarli!
Ecco perché noi parliamo di digital workplace, uno spazio unico in cloud dove le persone vanno a cercarsi le informazioni da sole… Che poi è la filosofia dello smart working! La grande sfida, anche per le Big Tech, è quella di realizzare un unico ambiente digitale dove le persone possono collaborare con gli altri in maniera agile. Noi facciamo software selection e proponiamo ai nostri clienti gli strumenti migliori per lui ma, ripeto, non vendiamo una tecnologia quanto una strategia, che combina sempre mezzo e fine, con accento su quest’ultimo.
Del tuo intervento allo Smart Working Day ci ha colpito una riflessione sul fatto che l’Europa è consumatore di tecnologia ma non sviluppatore. A tal proposito avrai sentito che l’Italia per il “cloud nazionale” - con tutti i dati della nostra PPAA - rischia di appoggiarsi su server americani. Che conseguenze ha questa nostra arretratezza?
La battaglia su dove sono i data center e chi controlla le informazioni generate da questi dati esiste. Purtroppo l’Europa e l’Italia, pur avendo eccellenze nel coding, scontano un gap culturale fin dalla scuola primaria. In Cina o in California già a 6 anni insegnano a programmare. Negli ultimi 20 anni ci siamo addormentati, salvo qualche brillante start up, ma che poi rimane eccezione.
Peccato, perché in Europa abbiamo la nostra Silicon Valley, ovvero l’Estonia, che ha investito nel digitale, ha attratto talenti e fatto nascere aziende che hanno spiccato il volo, esempio Skype, Wise ed altre. Basterebbe copiare quel modello e avere un progetto serio, queste partite si giocano su 5, 10 anni. Adesso noi non attraiamo cervelli – che vanno a San Francisco o Shanghai - perché qui non si trovano i fondi ed imprese che li coltivano. È chiaro perché: servono i soldi e sono gli stati o le aziende che li devono mettere!
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