L'idea della settimana lavorativa corta, a remunerazione invariata, desta sempre più interesse. L'impatto della pandemia, che ha stravolto le abitudini lavorative di milioni di persone, sembra aver creato un terreno fertile per sperimentare nuove modalità organizzative. I lavoratori sono sempre più interessati a privilegiare la propria salute mentale, il tempo libero e la famiglia, ma anche i datori di lavoro sembrano più propensi ad assecondarli, se non altro per assicurarsi di non perdere i propri dipendenti in un mondo dove la fedeltà al posto di lavoro è ormai merce rarissima.
Forse ricorderete un precedente articolo su questo magazine sui dati molto promettenti pubblicati da 4 Day Week Global, un'organizzazione senza scopo di lucro che ne sta promuovendo l'adozione, riguardanti i primi sei mesi di sperimentazione che ha coinvolto 61 imprese nel Regno Unito. Secondo lo studio si sono registrati aumenti di produttività e fatturato assai rilevanti, mentre i lavoratori riferiscono minori livelli di stress ed un migliore equilibrio tra la vita privata e quella professionale. Ma è ancora presto per stabilire se questi risultati siano generalizzabili, duraturi e - soprattutto - se bastino a rendere questa nuova organizzazione del lavoro appetibile e accettata sia tra le aziende che tra i lavoratori. Alcuni manager, specie quelli più vecchi - in particolare se uomini - tendono infatti ad esprimere un maggiore scetticismo, mentre tra i lavoratori i più entusiasti ci sono quelli impegnati nella cosiddetta economia della conoscenza.
Anche in Europa continentale la settimana corta desta interesse, come dimostrano le proposte in tal senso che i politici - specie di sinistra - hanno avanzato, dal Belgio al Portogallo, dall’Islanda alla Finlandia, fino alla Spagna. Tra gli altri, perfino in Giappone, nonostante lo stereotipo del salaryman che passa giorno e notte coi colleghi per puro spirito aziendale, sono iniziate delle sperimentazioni di settimana corta. Il motivo è piuttosto semplice: la settimana breve sembra offrire risposte ad alcuni dei problemi più pressanti che ci troviamo oggi ad affrontare sia a livello individuale che sociale.
Dal punto di vista ambientale ridurre il numero di giorni lavorativi significa ridurre gli spostamenti, e quindi il consumo di carburante. Un giorno in ufficio in meno può consentire sia agli uomini che alle donne di dedicare più tempo alla cura dei figli o degli anziani, e quindi promuovere sia la natalità che una maggiore equità di genere. Più tempo libero può anche consentire di esprimere la propria creatività a livello artistico o imprenditoriale, oppure offrire l'opportunità di coltivare nuove conoscenze e competenze. Com'è ovvio anche a livello accademico la discussione è aperta, come lo è in realtà da lungo tempo visto che a proporre orari di lavoro più brevi furono già alcuni grandi economisti del passato come Marx, Keynes e Schumpeter.
La riduzione dell'orario di lavoro è una costante storica.
Da una prospettiva storica possiamo dire che la riduzione dell'orario di lavoro è più o meno una costante sin dalla Rivoluzione industriale. Se nel 1870 si lavorava per più di 3.000 ore ogni anno (cioè circa 70 ore per 50 settimane), oggi la media è di circa 1700 ore l'anno nei paesi OCSE. Si potrebbe quindi ipotizzare che una maggiore quantità di tempo libero non sia altro che la naturale conseguenza dello sviluppo economico e tecnologico.
Non solo, ma alcuni capitalisti come Henry Ford vedevano nella creazione di una società dei consumi uno sbocco importante per le proprie produzioni industriali. Non è un caso che fu proprio lui ad inaugurare, in America, il fine settimana di due giorni. Questa prospettiva è, però, troppo semplicistica e ignora ingiustamente gli sforzi effettuati per ridurre il tempo lavorativo scontrandosi contro fortissime resistenze: si devono citare non solo le difficilissime lotte sindacali, spesso represse violentemente, ma anche i movimenti religiosi (dai "temperance groups" in Gran Bretagna fino a Leone XIII) che sottolineavano la necessità di garantire il riposo settimanale per i lavoratori.
È impossibile prevedere se la settimana corta prenderà o meno piede nel futuro prossimo, ma l'interesse generato è innegabile, i dati storici favorevoli e i vantaggi promessi assai numerosi. Ma forse guardare alla questione in modo meramente strumentale è sbagliato, e dovremmo partire dal presupposto che il tempo libero sia un bene in sé.
Come ha scritto Bertrand Russell nel suo Elogio dell'ozio: "io voglio dire, in tutta serietà, che la fede nella virtù del lavoro provoca grandi mali nel mondo moderno, e che la strada per la felicità e la prosperità si trova invece in una diminuzione del lavoro".