Nell’ultimo episodio della nostra newsletter, abbiamo affrontato il tema sul “Perché fare il lavoro che ti piace è una fregatura”. Nei fatti, sappiamo tutti bene che lavoriamo troppo, consumiamo troppo, vogliamo dedicarci a tante cose, divoriamo il tempo con il binge-watching su Netflix, impiliamo libri con la promessa di leggerli, paghiamo abbonamenti alle palestre ma… Non ci godiamo mai il momento!
Ogni aspetto della vita è riempito in maniera compulsiva, come se ci fosse uno standard di vita illusorio a cui dobbiamo aderire. Questo atteggiamento è definito whole self, ovvero il falso mito di mettere tutto noi stessi in quello che facciamo, trasformando anche le passioni in un lavoro. Motivo? Forse per avere conferma di essere appagati, svuotando però quasi del tutto il piacere connesso con quello che stiamo sperimentando.
Ma una definizione specifica di whole self non esiste, nel dizionario britannico la traduzione è legata al concetto di “dare tutto se stessi”. In un articolo su Forbes ho trovato un riferimento al whole self attinente alla linea di pensiero, un tempo affermatasi nel mondo del business, sul portare “tutto se stessi” al lavoro. Un atteggiamento “individualista” che è stato poi replicato in vari aspetti della vita privata.
Perché se la professione da sola non è più sufficiente a definire le persone - la precarietà del lavoro ha segnato la nostra epoca disconnettendoci dai valori sociali della generazione dei baby boomer, da cui molti di noi sono stati educati – abbiamo bisogno di altri meccanismi di riconoscimento.
Così, anche se percepiamo la forte necessità di immaginare le nostre scelte come più flessibili, in modo da non dover essere incasellati come è accaduto con il binomio identità-professione, molti dei tentativi che facciamo per affrancarsi da certe etichette non fanno che replicarle. Una dedizione alle passioni personali più autoimposta che naïf. Se da un lato non vogliamo farci riconoscere solo sulla base del ruolo sociale come le precedenti generazioni, dall’altro ci comportiamo ancora come se cercassimo un’identità specifica.
L'atteggiamento individualistico di cui sopra ci spinge a ricercare svariati punti di riferimento a cui rimanere agganciati: quelli che dimostrerebbero agli altri che siamo “impegnati”.
La crisi del lavoro ha aperto un vuoto identitario inedito, che ci ha portato a ridefinire il nostro bisogno di riconoscimento, cercando risposte anche nelle attività più disparate, per quanto semplici e riduttive: il volontariato, il circolo del tennis, il gruppo di fotografia, il corso di yoga... In conclusione il bisogno di rispondere alla difficoltà di sentirsi realizzati e a guadagnare quanto crediamo di meritare.
Ci hanno detto di lavorare duramente e attendere che il mercato del lavoro distribuisca la ricchezza in maniera equa e razionale. La verità è che pur dedicandosi con sacrificio alla nostra professione, la ricchezza è generalmente fuori portata della nostra attività e non proporzionale all’impegno profuso. Come ammonisce lo storico e accademico James Livingston, abbiamo riposto nel lavoro troppe scommesse di natura etica, sociale e culturale, tanto da rimanere spiazzati quando questo non restituisce quello che sembrava promettere.