Negli ultimi tempi si parla molto di employer branding, ovvero lo sforzo comunicativo di un’organizzazione per attrarre quei talenti che si aspettano una certa cultura aziendale promessa. Far diventare l’impresa un luogo in cui le persone sono soddisfatte di lavorare, ovvero non sono spinte da pressioni sociali ma da un reale allineamento ai valori dell’impresa, è un’aspirazione che hanno molte realtà. L’employer branding è quindi un insieme di attributi e qualità, spesso intangibili, che definisce l’identità dell'organizzazione come luogo di lavoro, evidenziandone le caratteristiche distintive rispetto ai competitor.
Poi c’è la faccenda dello stipendio e qui le cose si complicano... Dunque, in sede di colloquio, quanto conta “il lavoro” in sé rispetto a “l’azienda”?
La questione dei “soldi”.
Sicuramente la sicurezza economica è un motore che muove molti lavoratori e spesso chi cambia lavoro parla di un’offerta “irrinunciabile” proprio sul piano economico. Tuttavia, se si è ancora “giovani” e senza una numerosa famiglia da mantenere, solitamente la motivazione viene da altri input, ovvero le emozioni e il benessere. Non solo, se vogliamo restare sul discorso pratico, è bene ricordare che se contano solo i soldi allora anche le aziende cercano di comprimere il costo per il personale. Tra l’altro, proprio in un Paese come l’Italia, orientato all’export e con l’Euro che ha tolto alle aziende la possibilità di sfruttare i deprezzamenti della Lira, da vent’anni a questa parte la compressione degli stipendi è l’unico strumento di riduzione dei costi generali.
Quindi, lo stipendio è senz’altro un elemento da tenere in considerazione e in Italia, dove gli stipendi sono mediamente bassi rispetto alle altre economie evolute, i soldi sono la principale motivazione per cambiare lavoro.
L’aspetto dei “valori”.
Se da noi la questione “soldi” è fondamentale, all’estero non è così: in molti Paesi le persone lasciano gli ambienti di lavoro e non gli stipendi. Ad esempio nel Nord Europa si è disposti a lasciare buone retribuzioni se l’ambiente di lavoro diventa tossico. Quella è una società dove il worklife balance risulta centrale nell’organizzazione della vita: bilanciare il tempo, dando spazio non solo alla professione ma anche alla vita privata, agli interessi, agli hobby e alle relazioni del lavoratore è un vero e proprio ordine sociale.
Ma in generale, senza scomodare gli scandinavi e rimanendo alle nostre latitudini, le aziende che costruiscono organizzazioni basate sui valori - e ce ne sono tante anche da noi - poi ne tengono di conto e tendenzialmente cercano anche di retribuire adeguatamente i loro collaboratori. I soldi sono importanti ma quando si arriva a un certo livello si mettono sul piatto della bilancia altri valori: la serenità, i colleghi e un management di cui ci si può fidare, un progetto condiviso, ecc.
In conclusione, perché accettare o rifiutare un lavoro? “Quali sono i valori dell’azienda?”, pochi fanno questa domanda in sede di colloquio in Italia, eppure sarebbe fondamentale, dato che probabilmente un employer branding veramente centrato sui valori tenderà anche a soddisfare le aspettative di retribuzione.