Daria Bignardi su Vanity Fair di settembre ha definito il quiet quitting (letteralmente “lasciare quieto”) una sorta di «licenziarsi in silenzio», un significativo derivato di quello che gli anglosassoni chiamano life balance, l’equilibrio tra vita privata e professionale.
Il quiet quitting, più precisamente, indica una tendenza che si sta diffondendo tra i giovani a non mettere il lavoro al centro della propria vita, bensì la qualità del tempo, sia che lo si passi attraverso le passioni, gli svaghi o le soddisfazioni private. Quindi approcciarsi al lavoro con “sano egoismo”, appunto, con la Bignardi che conclude domandandosi “chissà perché da adolescenti siamo così sanamente egoisti e poi ci dimentichiamo di ascoltare le nostre esigenze”.
Dopo che le Grandi Dimissioni sono state la tendenza post pandemica del 2021, sembra che questa sorta di “lavorare alla meno” sia pure un’eredità soft del medesimo periodo, ma una sorta di assestamento.
Il primo a parlare del quiet quitting in estate è stato il quotidiano britannico progressista The Guardian con l’articolo “Quiet quitting: why doing the bare minimum at work has gone global”. L’autore, James Tapper, ha intervistato Maria Kordowicz, docente di Comportamento Organizzativo presso l’Università di Nottingham, la quale ha rilevato che <<dalla pandemia, il rapporto delle persone con il lavoro è stato studiato in molti modi e la letteratura in genere, in tutte le professioni, sosterrebbe che sì, il modo in cui le persone si relazionano al proprio lavoro è cambiato. La ricerca del significato è diventata molto più evidente. Durante la pandemia c’era il senso della nostra mortalità, qualcosa di esistenziale intorno alle persone che pensavano “Cosa dovrebbe significare per me il lavoro? Come posso svolgere un ruolo più allineato ai miei valori?”>>.
La conclusione di quanto osservato dagli studiosi di comportamento organizzativo è a loro avviso una tendenza preoccupante e che le aziende non dovrebbero sottovalutare. Un sentimento di diffusa minore soddisfazione sul lavoro, mancanza di entusiasmo e meno impegno. Quindi potremmo giustapporre la “rinuncia tranquilla” alla “grande rassegnazione”.
Oltreoceano il Wall Street Journal - il quotidiano dell’alta finanza e dell’imprenditoria statunitense – ha bollato la “rinuncia tranquilla” come una moda giovanile. Cioè un possibile effetto del primo impatto dei giovani con il mondo del lavoro, in cui non è mai stato facile «farsi strada tra i capi spregevoli e le piccole umiliazioni da sempre inflitte ai lavoratori dipendenti». Indubbiamente la tendenza è principalmente osservata tra Millennials e Gen. Z, ma il quiet quitting potrebbe riflettere squilibri e insoddisfazioni più profonde nel rapporto con il lavoro.
In Italia si è discusso molto sulle Grandi Dimissioni e sulle differenze con il medesimo fenomeno negli USA, perché noi abbiamo un problema di notevoli dimensioni che ancora non trova soluzione: la trappola del precariato.
Per La Repubblica, in un articolo a firma di Paolo Mastrolilli dal titolo “Lavorare, ma non troppo: la nuova via alla felicità si chiama quiet quitting”, il bisogno di libertà indotto nel post-pandemia non passa più dalle dimissioni. Ora si punta a salvare posto e stipendio, benché con il freno a mano tirato.
Comunque la si chiami e da quale angolo la si guardi, la questione sembra sempre la stessa: dagli USA alla Cina, passando per l’Europa, la generazione Z e i Millennials hanno cancellato i sogni di “scalata sociale” e “il successo”. Basta giornate in ufficio fino a tardi, gli avanzamenti di carriera non sono più assicurati, tanto vale godersi la vita!