Sono moltissimi i lavoratori stressati, vuoi per il post pandemia, vuoi per l’insoddisfazione del proprio posto di lavoro, vuoi che per avere uno stipendio decente le persone svolgono anche più di un lavoro, fatto sta che proprio in Italia lo scontento e la stanchezza regnano sovrane.
Oggi, il Global Workplace report di Gallup, un’indagine di Bain & Company, l’Unione Europea e un rapporto dell’ISTAT - dati 2022 - ci dicono che gli italiani sono i lavoratori più stressati al mondo e fra le persone con meno tempo libero a disposizione.
Le indagini evidenziano che il 49% degli intervistati in Italia associa alla propria occupazione una percezione di stress, con picchi che coinvolgono maggiormente gli under 35. Non solo, le ricerche rivelano che circa il 60% degli intervistati, nel nostro Paese, prova insoddisfazione nel pensare alla propria occupazione, con il 45%, di questi a dichiararsi costantemente preoccupato. Le donne, peraltro, secondo Indeed, sono maggiormente soggette (62%) rispetto agli uomini (54%).
Non va meglio nelle economie dei nostri partner europei. Da un’inchiesta è emerso che quasi la metà degli intervistati (46%) si sente esposta a una forte pressione del tempo o a un sovraccarico di lavoro.
Abituati a questa condizione tragica sono particolarmente i Millennials e i ragazzi della Generazione Z. Le giovani generazioni si trovano costrette a vivere situazioni tossiche croniche: privazione del tempo libero, precariato, bassi stipendi, iperconnessione digitale, in un circolo vizioso autoalimentante.
Storture organizzative e crisi psicologiche.
Lo scrittore Herman Melville, già nel 1853, nel racconto Bartleby lo scrivano, aveva messo in guardia su come la società moderna tendesse a storture organizzative nel lavoro causando crisi psicologiche. Il protagonista del libro lavora presso uno studio legale di New York e un giorno, dopo un periodo di attività intensissima, ha un tracollo tale da rifiutarsi di continuare la sua mansione, pronunciando la celebre frase “I would prefer not to”.
A distanza di 170 anni dalla pubblicazione del romanzo di Melville, il meccanismo competitivo che costringe a realizzare sempre maggiori prestazioni, sembra funzionare ancora perfettamente verrebbe da dire. Ma quanto è colpa di un sistema che ha istituzionalizzato “lo sfruttamento di noi stessi”, fino alla consunzione fisica, e quanto di una cattiva organizzazione e incapacità di gestione delle risorse?
Forse troppe persone sono a digiuno di time management come competenza per imparare a gestire meglio il nostro tempo. Ovviamente servono anche scelte aziendali che tutelino maggiormente le proprie risorse, un miglior worklife balance e una cultura della percezione del valore all’interno di un’organizzazione.
Infine, sarebbe auspicabile una politica che tenesse maggiormente in considerazione l’aspetto lavorativo dei propri cittadini, come ha deciso di fare il governo della Corea del Sud che ha preso seriamente in considerazione di affrontare il workaholic imperante in quel Paese. Questione di cultura o di scarsa organizzazione?