Negli ultimi anni, in fatto di lavoro, si è sentito molto parlare, soprattutto riferendosi a Millennials e Generazione Z, di persone svogliate, ingrate, che non sentono il bisogno di mettersi alla prova e non si impegnano per raggiungere degli alti standard lavorativi. Una descrizione che allontana le nuove generazioni da quel senso del sacrificio che da sempre siamo abituati ad attribuire al mondo del lavoro. Ma è davvero così? La verità è che anche i nuovi lavoratori hanno voglia e bisogno di trovare un impiego, ma ad essere cambiata è la mentalità.
Non è mancanza di impegno, ma volontà di cambiamento
Le nuove generazioni hanno le idee molto chiare: oggi la necessità è quella di lavorare a determinate condizioni, senza dover sottostare a quell’idea di sacrificio, ormai considerata stantia, che per molto tempo è stata regina dello storytelling lavorativo. Secondo una ricerca della Randstad Employer Brand, nel 2022 il 65% delle persone vuole lavorare in aziende con un buon work-life balance e un’atmosfera piacevole. Dati che confermano la volontà di trovare un impiego adatto alle proprie esigenze, ma che non necessariamente costringa a concentrarsi solo su di esso, arrivando a trascurare altri aspetti della propria vita. Un approccio completamente diverso rispetto a quello di chi mette la carriera davanti a tutto il resto.
Un cambio di rotta che si sta rafforzando in un momento di passaggio: la grande maggioranza dei dirigenti delle aziende, oggi, appartiene ancora alle generazioni ligie al sacrificio e si deve rapportare con giovani collaboratori sicuri e consapevoli. Si tratta, essenzialmente, di due concezioni differenti, non una gara tra chi ha voglia di lavorare e chi no. Come spiega Fabiana Andreani, Senior Training Manager: <<Da un lato abbiamo Boomer e Generazione X (i nati tra il 1946 e il 1980, ndr), generazioni dove il lavoro veniva visto, nel contesto di una società in crescita, come un obbligo per mantenersi e fare carriera. La promessa era: più lavori, più ottieni, più ti sacrifichi, più avrai indietro. Dall’altra parte abbiamo Millennials e Generazione Z (i nati tra il 1981 e il 2012, ndr). I primi hanno iniziato a cercare lavoro quando le crisi del 2001 e del 2007 hanno minato l’economia mondiale e, come i secondi, hanno sempre visto il mondo come qualcosa di precario>>.
Due visioni completamente diverse, dovute anche a una differenza socio-economica difficile da negare. Prima si viveva con un’idea di ambizione dovuta a uno schema sul futuro ben preciso: una carriera in ufficio, una prospettiva di pensionamento definita e un ascensore sociale in movimento. Ora, le cose sono decisamente cambiate. Secondo uno studio del Pew Research Center, infatti, il 70% delle persone crede che le condizioni economiche dei propri figli saranno peggiori delle proprie. Una percentuale che, in Italia, arriva al 75%. Tra stage non retribuiti, pensionamento visto come un’utopia e prospettive di carriera completamente diverse da quelle di qualche anno fa, la volontà di poter scegliere un’azienda che ci rappresenti a livello di valori e che non imponga un attaccamento viscerale è la nuova necessità. Da qui, le Grandi Dimissioni post pandemia e il famigerato quiet quitting tanto praticato dalle nuove generazioni, quanto temuto dalle aziende. C’è da dire, però, che non tutte le aziende ostracizzano questa nuova visione delle cose: quelle più attente, infatti, hanno capito l’importanza e la necessità di avere giovani talenti all’interno delle loro imprese e si impegnano perché la loro esperienza lavorativa sia il più possibile affine alle loro esigenze e a creare un ambiente che li rispecchi. Nella convivenza tra diverse generazioni e qualunque sia la visione del lavoro che decidiamo di seguire rispetto a questo aspetto una cosa è certa: il mondo sta cambiando e, con lui, anche le dinamiche e il modo di approcciarsi alla carriera.