In un precedente articolo abbiamo segnalato che gli stipendi guidano la classifica dei temi più discussi nel mondo del lavoro nel 2023. L’Italia si è trovata al centro di un acceso dibattito riguardante il salario minimo e il salario reale, quest’ultimo fermo al palo da trent’anni. Secondo l’ultimo rapporto INAPP, dal 1991 gli stipendi nel nostro Paese sono cresciuti solo dell’1% contro una media OCSE del 32,5%. Su questo dato influiscono sia il mancato rinnovo di numerosi contratti collettivi, sia l’efficienza del nostro sistema produttivo.
Questa situazione è emersa in un contesto segnato pure da record di utili per alcune aziende, inserite in mercati globali nonostante la scarsa visione complessiva della politica in merito alla crescita industriale del Paese. La pandemia ha portato poi a un ripensamento degli orari e dei luoghi di lavoro, mettendo in luce il divario tra aziende virtuose e quelle padronali. Quest’ultime sono quelle che hanno contribuito a delineare l’Italia come “terzista d'Europa”, con un impatto negativo sul valore aggiunto nelle fabbriche italiane.
La realtà delle piccola-media impresa
Le piccole-medie imprese si trovano a dover affrontare una realtà difficile. La domanda sorge spontanea: come possiamo aspettarci che tali aziende paghino salari più alti quando sono intrappolate in una situazione di bassa produttività, scarsa tecnologia e basso valore aggiunto? Se un metalmeccanico nel Regno Unito fa gli aerei e in Italia facciamo le viti per quegli aerei è chiaro chi stia meglio, anche in presenza di una normativa nazionale di tutela del lavoro peggiore di quella italiana. La specializzazione in attività di bassa qualità ha reso l’Italia dipendente da altri, su tutti la Germania, con conseguenze negative sui salari dei lavoratori: chi è “terzista” subisce la concorrenza di altri Paesi terzisti d’Europa, come la Polonia.
Il problema dei salari legati alla prestazione
L’approccio ai salari basato sulla prestazione che tiene conto di orari di lavoro atipici - come il notturno, gli straordinari o il sabato - non può essere il viatico per una migliore distribuzione di ricchezza, ma anzi ne sono un limite. Pochi investimenti tecnologici e in formazione del personale, l’invecchiamento della forza lavoro, contribuiscono a una situazione di stallo nelle aziende italiane ostacolando la crescita e la competitività.
La precarietà del lavoro
Il concetto del “lavoro che dura quel che dura” ha portato a una massimizzazione dello sfruttamento delle persone da un lato e a una sopravvivenza precaria dall’altro. Trent’anni di discorsi sulla “fine del posto fisso” hanno generato una precarietà diffusa e nuove forme di lavoro dipendente. Il fenomeno delle Grandi Dimissioni ha testimoniato, come fusibile del sistema, il malcontento dei lavoratori e la mancanza di prospettive, rivelando la necessità di una riflessione approfondita sul futuro dell’occupazione in Italia.
La fissazione nazionale dei salari
In conclusione, è fondamentale ricordare che il salario non è una concessione dell’azienda, ma il risultato di una fissazione nazionale. Purtroppo, a partire dagli anni Ottanta, le politiche favorevoli ai redditi da capitale a discapito dei redditi da lavoro hanno contribuito a l’annichilimento di quest’ultimo. Per affrontare la crisi dei salari in Italia, è essenziale adottare politiche economiche e industriali che promuovano la crescita sostenibile e la giusta distribuzione della ricchezza. Solo così il Paese potrà superare le sfide attuali e offrire prospettive migliori ai suoi lavoratori.