A colloquio con l’umanista digitale sulle potenzialità del settore che sta preparando una rivoluzione tecnologica. Anche nell'organizzazione del lavoro.
Alcuni mesi fa avevamo affrontato in un articolo il tema delle tecnologie immersive. Queste sembrano destinate a proporre un’ulteriore esperienza di lavoro da remoto, però su un piano diverso dal reale.
Negli ultimi anni sono entrate nel dizionario comune le parole “realtà virtuale” e “realtà aumentata”, per le quali è necessaria una precisazione concettuale: la prima è uno spazio nel quale l’uomo è completamente immerso e non ha contatto fisico con il mondo che lo circonda; nella seconda, tramite smartphone o visori, l’uomo resta nell’ambiente reale dove si trova ma interagisce con degli strumenti digitali.
Antonio Laudazi, classe 1982, docente e advisor per le tecnologie immersive, è il fondatore di Marte5, una delle prime agenzie italiane focalizzate su sviluppo di realtà aumentata e realtà virtuale. A fine 2019 è uscito il suo libro “Niente sarà più come prima” su come la quarta dimensione digitale stia cambiando relazioni, comportamenti ed economie.
Antonio, impegnato a diffondere la cultura digitale e proporre ad aziende, studenti o appassionati le potenzialità delle tecnologie immersive, sarà uno degli ospiti di Smart Working Village (dal 5 al 9 ottobre).
Qual è la tua definizione di “realtà aumentata”?
Si tratta della possibilità di inserire contenuti digitali nel mondo fisico, tipicamente attraverso un software e un dispositivo ottico. Uno spazio parallelo sovrapposto all’ordinario che noi possiamo popolare di oggetti digitali quali video, 3D, link, suoni, animazioni, informazioni in generale. Contrariamente a quanto si pensi, il concetto ha un’origine antica. Pensiamo alla tecnica pittorica trompe-l’œil che superava i limiti architettonici dando l’illusione ottica di avere spazi più ampi, o al trucco teatrale del Pepper’s Ghost, in uso dalla seconda metà dell’800 per materializzare forme e personaggi sul palco.
Di conseguenza chiariamo anche il significato di un’altra parola entrata nel vocabolario comune: avatar…
L’avatar è un modo di inserirsi nel contesto digitale con un personaggio tridimensionale, in generale è un’entità che compie azioni per conto nostro in quel mondo, un simulacro di qualcosa che è reale. Ad esempio in un videogioco l’utente è maggiormente coinvolto se ha modo di scegliere e personalizzare con gli accessori il suo “essere”. Ma l’avatar non ha solo un aspetto emotivo, bensì anche produttivo. Ne sono esempi i chatbot di assistenza clienti, che hanno una pillola di intelligenza artificiale dando l’illusione di interagire con una persona. Oppure le skills di Google Voice e Amazon Alexa.
Ancora, questi medium sono diffusi nel campo dello spettacolo. Ad esempio Michael Jackson si è esibito come “ologramma” nel 2014, cinque anni dopo la morte, sul palco dei Billboard Awards. Una vera rottura ella linea spazio-temporale! Quindi diventa reale quello che può creare degli effetti e delle emozioni, non solo quello che è biologico. Pensiamo anche al fenomeno del bullismo sui social, quello non è virtualità bensì realtà!
Il mercato delle tecnologie immersive si presenta sterminato: dalla pubblicità al commercio, dall’arte alla salute.
Sì perché oggi lo sviluppo di un qualunque concept si basa sull’audience. La “guerra dei contenuti” ormai è dettata dal livello di attenzione che si riesce a catturare. Rispetto ad un contenuto sui media tradizionali, nel nostro caso gli studi di neuroscienze dimostrano la permanenza media di un utente su un advertising in realtà aumentata sia più alta del 70%, con un impatto comprovato nella memoria a lungo termine. Il settore del retail non sarà soppiantato del tutto, ma come stiamo assistendo già adesso sarà sempre più come ibrido tra negozio fisico ed e-commerce. Nell’arte, l’offerta di mostre immersive è cresciuta molto negli ultimi anni e ha permesso una nuova fruizione per il pubblico.
Quali vantaggi avremo per la sanità?
In campo medico oggi ci sono diverse opportunità: tramite un visore un chirurgo guida le mani di un collega che si trova in una sala operatoria all’altro capo del mondo. Si può inoltre operare indossando dei visori che sovrappongono al paziente informazioni o modelli 3D in grado di supportare il medico. Oppure, come accaduto lo scorso anno in Italia, è stato fatto un training in 3D a dei chirurghi chiamati a rimuovere una rara forma tumorale al cuore di una bambina di sei anni.
Hanno avuto modo di provare e riprovare (simulare) questo intervento che si presentava complicato e sul quale, essendo molto raro non c’era letteratura scientifica - prima di eseguirlo realmente - con una copia digitale tridimensionale del cuore. Così hanno acquisito quell’esperienza che garantiva maggiori probabilità di successo una volta in sala operatoria. Sono tutte frontiere, siamo solo all’inizio, ma le tecnologie evolvono velocemente.
Quanto ci avrebbe fatto comodo una diffusione a livello domestico delle tecnologie immersive contro l’isolamento da pandemia Covid-19?
Oggi, con un visore in ogni casa, avremmo potuto mantenere delle relazioni a distanza molto più profonde di quello che abbiamo fatto con una videochiamata. Pensiamo in ambito scolastico per le lezioni on line, ma anche per tutte quelle aziende - dove i dipendenti hanno lavorato da remoto - c’è stata la difficoltà a gestire i team a distanza. Quindi, se l’immersività fosse stata già al livello di penetrazione degli smartphone, ci avrebbe supportato tantissimo per rompere l’isolamento a cui siamo stati costretti.
Antonio Laudazi sarà ospite di Smart Working Village, il suo si preannuncia un altro grande contributo al nostro dibattito sul futuro del lavoro.
Questa intervista è stata realizzata tramite la redazione della rivista Firenze Urban Lifestyle.