Alessandro Sahebi, classe 1989, laureato in Lettere e Filosofia, è un giornalista, blogger e attivista che si occupa di politica, giustizia sociale e disuguaglianze. Scrive per The Post Internazionale, Left, The Vision e Affari Italiani. La sua lettura tagliente sulle dinamiche del rapporto imprenditori - lavoratori lo rendono una voce interessante e controcorrente rispetto alla narrazione mainstream del mondo del lavoro.
Alessandro Sahebi sarà ospite a Empoli al festival IoResisto! sabato 1° ottobre, dove insieme al rapper Dutch Nazari si confronterà sul tema Cultura e Privilegio.
Alessandro, mi ha colpito un tuo post, provocatorio ma non troppo in realtà: “anche in ufficio si muore di lavoro”, facendo riferimento alla letteratura sulle conseguenze fisiche e psicologiche dei lavori da ufficio, esplosa con il fenomeno delle Grandi Dimissioni post-pandemia.
Culturalmente siamo soliti immaginare i lavori d’ufficio come più elevati rispetto a quelli manuali, anche da un punto di vista di postura e fisicità. Chi lavora in ufficio ha le mani curate, la camicia stirata, mentre chi lavora nei campi o in officina – anzi dovremmo dire “chi lavorava”, dato che le attività del settore primario e secondario sono state sempre più delocalizzate e riguardano una percentuale sempre minore della popolazione - è sporco, esposto alle intemperie e abbrutito dalla fatica. In questo senso era radicato nella nostra società, in particolare nella cultura contadina, che quando le persone finivano in ufficio avevano una sorta di elevazione sociale, un’evasione di classe diremmo.
In realtà l’economia è cambiata fortemente, si è centrata sul terziario e quindi l’output è stato che quella un tempo definita “classe proletaria” oggi in gran parte lavora proprio negli uffici. Gli uffici sono ambienti di lavoro dove non è vero che si è protetti dal malessere e dagli infortuni, semplicemente questi effetti sono cambiati. Il malessere del lavoratore di ufficio è più a lungo termine ma esiste ed è certificato: lo stress. Non siamo biologicamente fatti per stare seduti 8 ore davanti a uno schermo, le persone qui sono soggette ad ansia o pressioni dalla gerarchia (in forme diverse, ma avveniva anche in campagna e in fabbrica) dando luogo ad altri infortuni adesso oggetto di studio: problemi di postura, burnout, ecc…
Il problema di questi infortuni è che comunque non sono immediatamente riconoscibili. Lo stress e la depressione sono fenomeni non visibili e manifestanti nel lungo periodo. Questo spesso rende difficile una imputazione diretta tra il malessere e la carriera, rendendo ardua una eventuale causa all’azienda per malattia lavoro-correlata. Riconoscere che anche in questo settore i danni potenziali del lavoro esistono e sono impattanti sulla vita delle persone è fondamentale.
In un articolo hai sottolineato come l’aver fatto coincidere il lavoro con un valore morale ne abbia cambiato le dinamiche e fatto approdare gli individui ad atteggiamenti di sacrificio e colpevolizzazione. È un retaggio del neoliberismo che influenza ogni nostra visione delle attività umane?
Oggi i nostri riferimenti collettivi sono stati completamente svuotati. Margareth Thatcher, madre del neoliberismo, è famosa per aver fatto da primo ministro la guerra ai sindacati e alle varie forme di rappresentanza collettiva in Inghilterra. Lei ha detto “I don’t know any society, only individuals”; in questo senso c’è stata una forte spinta individualizzante.
Se spariscono le forme di rappresentanza collettiva - e siamo sempre più atomizzati - è evidente che la carriera diventa l’unico strumento che abbiamo di espressione. In quest’ottica qui lo sforzo come lavoratore/lavoratrice non è più solo produttivo ma è emotivo. Io sono portato ad amare il mio lavoro, a renderlo parte della mia pelle, a totalizzarlo portandolo a casa, a renderlo unico argomento di conversazione, a ridurre le nostre sfere sociali appiattite sui nostri colleghi…
In questo senso qua c’è stato un disegno: se le persone fanno coincidere la loro traiettoria esistenziale solo con la propria carriera, è evidente che si sentono meno parte di qualcos’altro. Vedono gli altri colleghi come avversari e non come persone che possono aiutare a migliorare l’organizzazione collettiva del lavoro, diventano soggetti più ricattabili in un ambiente – quello aziendale – dove i rapporti di forza sono già squilibrati in partenza. Non è stato solo un disegno economico, bensì politico.
Cosa ne pensi dello smart working? Una forma di well being - o welfare aziendale - oppure una modalità che comporta anche un certo rischio di isolamento e atomizzazione dei lavoratori?
Lo smart working è un fenomeno umano e come tale è contraddittorio. Chiaramente da una parte si da’ la libertà al lavoratore/ lavoratrice di organizzarsi in autonomia - quindi magari di operare da casa vicino ai propri cari e di non perdere tempo per raggiungere la sede di lavoro - ed è indubbiamente molto comodo per tante dimensioni, dall’altra allontana un po’ la persona dall’organizzazione.
Poi non dimentichiamo che adesso, di fronte alla crisi energetica che stiamo vivendo, tante aziende utilizzano lo smart working per risparmiare sui costi di luce e climatizzazione, trasferendoli però a carico del lavoratore/ lavoratrice. Appunto, essendo un fenomeno complesso, non ci si può schierare in posizione favorevole-contraria, bisogna assumere le contraddizioni dello smart working per cercare di mitigarle. Dal mio punto di vista è bene che ci sia lo smart working, ma ritengo opportuno considerare le spese accessorie che i lavoratori devono sostenere per una connessione migliore, la postazione, il riscaldamento e l’illuminazione. Infine lo smart working deve essere realmente “smart”, no telelavoro.
Quindi libertà organizzativa, avere degli orari d’ufficio ed essere bloccato a casa secondo questi orari è una forma di controllo. Che poi diventa desolante perché lì è isolamento, atomizzazione e magari causa nuovamente di stress. Sicuramente è importante che ogni azienda possa decidere con i suoi collaboratori se implementare lo smart working - e dipenderà da realtà a realtà - ma è altrettanto importante che la normativa sul lavoro tuteli le persone da tutte quelle contraddizioni che possono diventare dannose per le persone.