Thales è un gruppo leader mondiale degli apparecchi elettronici destinati all'industria dell'aeronautica, dello spazio, della difesa, della sicurezza e delle modalità di trasporto. Gianpiero Tufilli, International Human Resources Director, esaminando i cv sta assistendo da tempo al job hopping, cioè “saltare da un lavoro a un altro” con frequenza. Ma non lo considera un fenomeno negativo, anzi.
È così frequente nella tua esperienza esaminare candidature che presentano vari lavori in pochi anni?
È un fenomeno che vedo soprattutto negli ultimi tre anni, a cavallo del periodo pandemico. Prima il trend della durata di una posizione lavorativa si assestava - a livello globale - sui cinque anni, ora si cambia anche un’azienda all’anno. Il mio punto di vista è che da un lato il mercato sia più ‘volatile’ rispetto a qualche tempo fa, dall’altro che le imprese negli ultimi anni stanno stravolgendo la loro organizzazione, per differenti motivi, mettendo i collaboratori stessi nelle condizioni di avere mansioni che cambiano di continuo. Questo può generare il bisogno di cambiare lavoro.
Il fenomeno riguarda le figure apicali?
In realtà è abbastanza generalizzato, però con punte su settori e figure manageriali. Oggi nel mondo IT e ingegneristico ad ampio raggio, per esempio, il mercato della domanda è praticamente inesauribile, quindi le figure junior che hanno dai 25 ai 30 anni hanno tantissima scelta e sanno di poter manifestare le loro esigenze. Queste vanno dalla flessibilità oraria, a un buon worklife balance, fino a leve salariali e professionali. Se non lo trovano, è molto probabile che passino a un’altra azienda. Lo affermo perché siamo un gruppo che investe molto su Ricerca & Sviluppo e ad alta tecnologia, quindi so bene che chi ambisce a entrare nel settore dei software e della cybersecurity ha una possibilità di scelta quasi infinita.
Quali sono le altre motivazioni di questi cambi?
Lato collaboratori c’è consapevolezza della propria competenza nel mercato. Lato imprese la “guerra dei talenti” e il mismatch tra domanda e offerta di competenze sono elementi ormai consolidati. Il rapporto previsivo di Unioncamere Excelsior sui fabbisogni occupazionali a medio termine uscito nel 2022 prevedeva una domanda di circa 4,3 milioni di lavoratori entro il 2026. Sebbene si tratti di ipotesi, è possibile immaginare che almeno 1 milione 350mila possano andare in fumo per assenza di candidati, ma è una stima prudenziale. Le aziende quindi devono essere attrattive puntando su salari competitivi, flessibilità, brand reputation basata su valori reali che se mancano sono tra i motivi di dimissioni, soprattutto tra i giovani. Molte imprese hanno però limiti oggettivi che non possono derogare, per esempio organizzare il lavoro da casa è diverso - a livello di tempi e costi - se si hanno 30 o 3.000 risorse.
In Italia questi fenomeni, soprattutto nelle aziende padronali, sono visti spesso con sospetto, mentre all’estero è abbastanza consueto. Qual è la tua opinione a riguardo?
Non vedo grande differenza tra Italia ed estero, o tra aziende piccole e grandi. Come sempre, la percezione cambia in base a chi guida l’organizzazione. Anche perché non è che stiamo parlando di “mercenari del lavoro”, ma solo di persone che per mille motivazioni hanno scelto un'impresa diversa dopo un tot. di tempo. Nelle aziende padronali, ovviamente, se un parametro fondamentale è la stabilità delle risorse - intesa come numero di anni nella stessa realtà - perché costituisce motivo di orgoglio, sarà difficile cambiare mentalità e far capire che un curriculum con cambi di posizione frequente non è una minaccia. Il discorso della stabilità è sicuramente adeguato per le competenze e le figure artigianali con profili specifici e difficili da reperire, ma nel management a mio avviso serve rotazione frequente perché in contesti medio-piccoli si tende ad adagiarsi nella consuetudine, quindi a non notare i cambiamenti in atto.
Parliamo invece di turnover alto: quando preoccuparsi veramente?
Quando il turnover livello generale è inferiore ai 2 anni: lì c’è un problema di attrattività e di brand reputation. Per i manager, al contrario, se si superano i sette anni di permanenza nello stesso ruolo secondo me non è un buon segno.