Monica Bormetti è psicologa del lavoro e autrice. Si occupa nella relazione che c’è tra la tecnologia e la psicologia. Fa formazione e coaching su smart working, work-life balance e benessere digitale. Nel 2019 è uscito il suo libro #Egophonia – gli smartphone tra noi e la vita, edito da Hoepli. Sarà una degli speakers protagonisti di Smart Working Village e abbiamo deciso di conoscerla meglio in vista del nostro evento.
La diffusione del remote working, da improvvisato a strutturale, a causa del perdurare della pandemia, pare ci abbia fatto diventare tutti più multitasking. Ma effettivamente, di cosa si tratta e quali impatti negativi ha sul lavoro?
Per la ricerca scientifica il multitasking, da un punto di vista cognitivo, non esiste. Quindi il nostro cervello non è nato per fare due attività contemporaneamente, più che altro capita di portare aventi due attività in parallelo, ma non insieme. Questo continuo passare da un’attività ad un’altra genera ovviamente dispersione di tempo, ma soprattutto fatica mentale, quindi stress. Terzo effetto negativo, riscontrato scientificamente, è una minor capacità di apprendere e memorizzare: nel momento in cui il cervello è impiegato per più attività contemporaneamente, perde il controllo di una parte delle informazioni che sta elaborando.
Ovviamente, possiamo fare due attività in contemporanea quando una delle due è meno impattante come richiesta di presenza mentale rispetto all’altra. Esempio banale il guidare ed ascoltare la radio. Dal punto di vista lavorativo, il remote working di questi mesi, con più attività aperte contemporaneamente – il gestionale aziendale, la mail da inviare, la telefonata, le notifiche dei social sul cellulare, un’occhiata al sito delle news… - ha comportato situazioni di perdita della produttività, disorganizzazione e stress. C’è anche un effetto nel lungo termine, ovvero il nostro cervello si abitua ad operare in un modo che non è performante, è come se lo allenassimo alla distrazione continua. Chiaramente questo ha un impatto sul lavoro.
In merito all’investimento delle aziende in nuove tecnologie, penso ai software di Unified Communications, notiamo che spesso sono fornite ai collaboratori senza adeguata formazione. Anche questo genera stress?
Sì, quello che capita di vedere nelle aziende è un iniziale grande entusiasmo nell’investimento in soluzioni che favoriscono lo smart working, quali gestionali o piattaforme, lasciando poi al singolo individuo l’abilità di organizzarsi rispetto all’impiego di questi sistemi. Succede che, aldilà dello stress causato dall’incapacità di maneggiare un nuovo strumento – il nostro cervello risponde proprio così – persone pur tecnicamente abili ne facciano un uso a proprio buon senso, senza però un linguaggio comune di policy condivise in azienda.
Questo crea ovviamente dispersione di tempo. Banalmente succede anche con la mail, che non è nata con lo smart working: in una grande azienda, gestire l’invio, a quali mittenti, chi mettere in CC, vedi che ognuno ha le sue regole e può causare fraintendimenti. Forse servirebbero delle regole condivise sulla costruzione di una cultura digitale, perlomeno all’interno della solita organizzazione.
Nella relazione tra la psicologia e la tecnologia, non posso esimermi da chiederle come l’utilizzo dei social sia accertata causa di distrazione e ansia. Eppure hanno cambiato il modo di lavorare, pensiamo a LinkedIn. Fondamentalmente non siamo educati al giusto tempo e modo di utilizzo?
I social, in particolare, sono basati su un modello di business fondamentalmente fondato sul tempo di utilizzo che noi utenti trascorriamo lì. Non paghiamo per l’accesso ma è il valore del nostro tempo la valuta di scambio, poiché le piattaforme tendono a profilarci per proporci meglio prodotti e pubblicità. I social sono un’innovazione tecnologica che si è sviluppata più velocemente rispetto alla nostra capacità di adattamento dei processi mentali.
Se pensi all’introduzione dell’automobile nella società, c’è stato il tempo di progettare un sistema – il codice della strada, la patente, ecc – rispetto alla tecnologia digitale. Ed è difficile pure starle dietro perché probabilmente quella tecnologia tra cinque anni sarà già obsoleta.
Vorrei concludere con una domanda sul suo libro, dove propone una riflessione su come noi esseri umani stiamo utilizzando lo smartphone e come potremmo usarlo più consapevolmente. Lei si è data delle regole di utilizzo?
Sì, poi ovviamente anche a me capita di cambiarle! Comunque, una cosa che cerco di mantenere sempre – esula dall’ambito lavorativo ma se ne trae sempre vantaggio - è quella di non portare lo smartphone in camera da letto. Consiglio di non utilizzarlo come ultima attività la sera e prima la mattina, per evitare un sollecito di notifiche che mette il cervello in uno stato di reattività e non di proattività. Poi, quando bisogna fare un’attività che richiede molta concentrazione è bene tenerlo in un’altra stanza per la durata di quel lavoro.
MONICA LA TROVERETE SPEAKER ALL’EVENTO “SMART WORKING VILLAGE”, 4-5-6 MAGGIO, CON UNO SPEECH DAL TITOLO “WELFARE&WELLBEING “NEXT NORMAL“. SCOPRI L’AGENDA DELL’EVENTO CLICCANDO QUI