Stefano Zaccaria, originario di Cortona ma fiorentino d’adozione, vanta un lungo percorso di carriera iniziato alla fine degli anni ’80 in piccole e medie imprese della Toscana fino a raggiungere importanti incarichi di management. Nel suo curriculum ci sono esperienze come CEO di Antiche Officine Pineider e Halo Italia SpA o VP Global Sales & Marketing di K-ARRAY. Particolarmente esperto nei mercati del lusso e dei prodotti di fascia alta - con una forte passione per le vendite, il marketing e lo sviluppo di aree ad alto contenuto innovativo – da un anno ha assunto il ruolo di Marketing Director in Toyota Material Handling Italia, l’organizzazione italiana della multinazionale Toyota Material Handlingleader nella produzione e distribuzione di soluzioni per la movimentazione e la logistica delle merci. È stato pure docente all’Istituto Europeo di Design a Firenze ed è attualmente membro consigliere al MuDeTo, Museo del Design Toscano. Spesso chiamato come lecturer o opinion leader su focus relativi al marketing, con Stefano ci conosciamo da alcuni anni e adesso è venuto il momento di intervistarlo per Smart Working Magazine.
Stefano, data la tua formazione accademica in architettura e industrial design, vorrei partire da una riflessione teorica sulla relazione tra lo spazio e il lavoro.
Da sempre e con convinzione mi sono fatto l’idea che intorno a questo tema ci sono delle variabili sulle quali non si può mancare di porre attenzione: ambienti, manufatti e persone. Le persone, esattamente come i manufatti, conducono edesprimono la visione dell’azienda, mentre spesso gli ambienti tendiamo a considerarli in ottica diversa, sia che accolgano attività d’ufficio, produttiva, logistica o di vendita, e ne sottovalutiamo certe specificità, che sono invece fondamentali leve di marketing e di attrattività. Infatti, l’ambiente, nella sua dimensione architetturale, ha un valore importante e primario.
Ci potremmo domandare se nasce prima lo spazio che ci accoglie come persona o l’azienda che lo occupa con il proprio modello produttivo. Più in generale ritengo che lo spazio di lavoro si confonda sempre di più tra indoor ed outdoor, ovvero tutto il costruito caratterizzante un luogo. In questo spazio passiamo buona parte del nostro tempo e per questo la consapevolezza sul benessere diffuso dovrebbe essere fondamentale.
Da cosa dipende il benessere negli spazi di lavoro?
Il benessere della persona che lavora deve essere assicurato sempre e possibilmente in maniera diffusa, e dipende dal soddisfacimento di attese ancestrali e dalla necessità di stimoli positivi. Oggi mi capita di scherzare con i colleghi e chiedo loro se un magazzino possa essere un ambiente gradevole, possa ad esempio addirittura odorare o prevedere un sound design diffuso. Non è una provocazione. Perché ritenere che il senso dell’olfatto non debba essere coinvolto in quel contesto? Allo stesso modo mi pongo delle domande sulla componente acustica, sonora e musicale; tre componenti diverse che non sono la stessa cosa, infatti uno spazio può essere trattato acusticamente ma non avere suoni o musica d’autore diffusi.
Noi sappiamo bene che la distrazione potrebbe essere massima nel momento in cui l’ambiente è rumoroso o all’opposto quando è estremamente silenzioso. Quindi do per scontato che il well-being preveda il raggiungimento e soddisfacimento di tutti i cinque sensi.
Anche la vista deve essere stimolata, magari grazie anche alla presenza di elementi di arredo ad alto valore estetico e culturale, le luci studiate correttamente, i colori accostati con scrupolosa attenzione e sapienza. Ecco che oggi si parla oltre che di interior design, di sound design e light design come elementi imprescindibili di una più consapevole progettazione degli spazi di lavoro per il benessere di chi appunto deve occuparli e soprattutto viverli.
È ovvio che molti non possono godere di una “rendita di posizione” dovuta alla location favorevole, immaginiamo un’azienda al centro di un contesto ambientale e paesaggistico raro, ma c’è una dimensione architettonica sulla quale si può investire perché lo spazio di lavoro sia accogliente, inclusivo e possa contenere oltre alle persone e i manufatti, soprattutto delle pause. Pause intese come momenti di riflessione, di socialità, di approfondimento, confronto, quindi intese come “intangible asset” strategico.
Oramai abbiamo un po’ ovunque open space progettati ed allestiti oltre 20 anni fa e quindi non più attuali. In questi spazi le moderne tecnologie e le diverse operosità trovano solo ostacoli; spazi incredibilmente rumorosi, vuoi solo per le voci che si sovrappongono, come un tempo lo erano gli storici spazi che accoglievano le centraliniste della SIP!
Anche la disposizione degli arredi stessi non è più attuale; pensate a chi realizza dei locali chiusi, minuscoli, senza finestre, come lo sono i phone booth, che oggi vanno tanto di moda. Nessuna attenzione all’illuminazione e all’areazione,ci ricordano più un loculo cimiteriale che altro! Ripensare gli spazi di lavoro è imprescindibile perché questi sono i contenitori degli stati d’animo, ovvero del benessere e della creatività.
Quindi qual è il tratto distintivo di un’azienda che ha cura dei suoi spazi in ottica di benessere?
Quello che serve sempre più è la capacità di intercettare la pausa, non la intendo solo come momento ricreativo, bensì di silenzio o stimolo, perché molti mestieri hanno la creatività e l’intuizione come elemento fondamentale. Senza creatività non ci si riesce a distinguere, a meno che l’azienda non abbia scelto di essere solo competitiva sul prodotto. Preferisco aziende che hanno vocazione alla distinzione, perché sono quelle che intraprendono anche il ripensamento dei loro spazi di lavoro in ottica di benessere.
Chi compete in maniera arida tendenzialmente fa fatica a intendere questi valori come caratteristici della crescita, misurandosi solo sui risultati più basici: fatturati, margini, ecc., e non la soddisfazione dei dipendenti, dei clienti e quindi la restituzione di qualcosa all’ambiente che ti ospita. Ricordo che in K-ARRAY mettevamo gratuitamente a disposizione il suo auditorium per concerti aperti ai dipendenti, alle loro famiglie, ai loro amici, agli abitanti più prossimi. Quindi il tratto distintivo di un’azienda che ha cura dei suoi spazi in ottica di benessere, lo si rileva da un buon impianto progettuale, che risulta dall’attività di specialisti di settore, ingegneri, architetti, interior and exterior designers, light & sound designers. Nella meta-progettazione e progettazione di questi ambienti e architetture gioca un ruolo fondamentale il miglioramento delle performance di sostenibilità degli spazi e soprattutto il benessere delle persone.
Pertanto, una azienda virtuosa oltre a garantire un miglior comfort, per esempio in termini di temperatura, qualità dell’aria, acustica ed illuminazione, allo scopo di conferire benessere alle persone, deve garantire riduzione dei costi, degli sprechi energetici ed oggi, sempre con maggiore consapevolezza, delle emissioni di CO2. Zero emissioni entro il 2030 così come indicato anche nel piano di sostenibilità di Toyota Material Handling.
E invece qual è a tuo avviso la relazione tra benessere e tecnologia?
Il well-being è dato da una commistione di desiderata ed ambizioni, professionali e private. Una volta, per esempio, i sales manager uscivano con lo stradario alla mano, e qualche gettone telefonico in tasca. Allora c’erano tempi morti insostituibili, come il viaggio e le attese tra un appuntamento – immancabilmente in presenza - ed un altro. La tecnologia ci ha accompagnato verso la possibilità di immaginare smart lo scenario e lo spostamento, ma pure ha generato altre situazioni stressanti. L’agilità non la possiamo immaginare costretta da un device perché “agile” deve essere il modello.
Oggi la tecnologia sembra possa conferire solo vantaggi, eppure perdiamo certi aspetti della “vita analogica”. Mi riferisco alla prossimità fisica che non può venire meno, perché la nostra creatività è stimolata anche da approcci comunicativi che solo in presenza possono realizzarsi.
Vedersi continuamente su uno schermo, a mezzo busto e con fondali improponibili non avvantaggia le relazioni. Voglio dire, per me lo smart working non è “poterlo fare” quando e come, ma piuttosto “il bisogno di farlo” quando e come. In molti casi, portare a casa una parte della tua dimensione lavorativa, al di là della tecnologia che può assisterla, rischia di farla insistere nel tuo contesto abitativo e privato per troppo tempo, aumentando il livello di stress e la sensazione di isolamento, con il rischio di far venire meno lo stato di benessere desiderato.
A tuo avviso i giovani talenti possono essere attratti da un’azienda per i suoi spazi oltre che dallo smart working?
Immagino che i giovani si vogliano riconoscere nell’ambiente architettonico, dove tendono a ricercare immediatamente gli spazi di condivisione, ricreazione, formazione etc. I giovani si aspettano aziende tecnologiche, smart e anche un po’ patinate; cosa non si immaginano è però l’esatto contrario, che purtroppo è molto spesso la realtà: ambienti non accoglienti, spazi di ricreazione assenti, gruppi di lavoro che non esistono, perché per loro non c’è spazio. Invece, in un contesto che risulta patinato, magari si rileva solo un racconto affascinante dell’azienda, ma poi ti accorgi che manca una “storia” da condividere. Un giovane deve poter prendere quella parte di heritage che è ceduta dall’azienda – non sempre in maniera consapevole – e farla sua nel momento in cui la interpreta. Un’impresa ricca di valori in qualche modo li trasferisce e li condivide.
Chi entra nel mondo del lavoro dovrebbe puntare alle ricchezze di valori, il benessere arriva alle persone attraverso le organizzazioni, la modalità analogica o digitale, non necessariamente fa la differenza, e tanto meno dovrebbe attrarre.