Roberto Reale è manager dell’innovazione con oltre 10 anni di esperienza in e-government e trasformazione digitale di settori strategici in ambito nazionale e nell’U.E. (organi parlamentari, finanza pubblica, procurement, infrastrutture critiche, servizi pubblici). Ha curato progetti di ampio respiro presso la Commissione Europea, l’Agenzia per l’Italia digitale, la Camera dei deputati, il Ministero degli Affari Esteri e organizzazioni private. Partecipa a tavoli multistakeholder della Commissione Europea e a organismi internazionali di standardizzazione ed è, inoltre, docente a contratto presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi. Nel 2022 per FrancoAngeli Editore ha curato il saggio “Dimensioni dello smart working”.
Parlando di innovazione per la cultura agile, la prima su cui bisogna mettere il focus, in merito allo smart working, è ovviamente la transizione digitale. Ritieni però che proprio sullo smart working ancora non siano stati colti tutti i vantaggi organizzativi?
La transizione digitale, pur essendo un aspetto cruciale per l’adozione dello smart working, rappresenta solo una parte del quadro complessivo. Come abbiamo cercato di raccontare nel libro Dimensioni dello smart working che ho curato per FrancoAngeli, esistono numerosi vantaggi organizzativi legati allo smart working che le aziende e le pubbliche amministrazioni possono ancora sfruttare per accrescere la loro produttività e competitività. Ma, cosa ancora più importante, lo smart working è una questione di cultura.
Va precisato che lo smart working è un concetto nato in Italia nel 2012, definito come un modello organizzativo basato su autonomia e flessibilità nella scelta di luoghi, orari e strumenti di lavoro, con responsabilizzazione sui risultati. La Legge n. 81/2017 ha stabilito una cornice normativa avanzata per un concetto che va ben oltre il telelavoro e richiede un cambiamento profondo nell’organizzazione del lavoro, passando da un approccio basato sul presenzialismo e controllo a uno incentrato sulla fiducia, collaborazione e meritocrazia.
La sfida oggi è riconoscere che il mondo del lavoro è cambiato per sempre e utilizzare le lezioni apprese durante la pandemia per costruire modelli di lavoro più sostenibili e intelligenti: paradigmi ibridi abilitati da digital workplace avanzati. Ma la sfida è anche quella della tutela. Come scrivo nel libro, la trasformazione digitale e l’innovazione offrono strumenti potentissimi - e metafore concettuali - per abilitare il cambiamento. Quanto più imponente è lo spazio che il digitale si conquista nella nostra economia e nelle nostre vite, tanto più cresce la precarietà dell’infrastruttura umana in cui quello stesso mondo digitale affonda le proprie radici.
I servizi digitalizzabili si reggono in buona parte su servizi non digitalizzabili, spesso perché non conviene, e i lavoratori che vi sono impiegati non possono reggere da soli il peso di un evidente svantaggio competitivo. Il nostro compito è progettare e implementare tutele adeguate affinché l’innovazione non generi disuguaglianze.
E a che punto è il “sistema Italia” in termini di digitalizzazione?
Il “sistema Italia” ha sicuramente compiuto grandi passi avanti nella digitalizzazione, grazie in parte alla spinta generata dalla pandemia prima e dal PNRR poi. La necessità di adattarsi rapidamente a nuove modalità di lavoro, comunicazione e interazione ha dimostrato quanto sia cruciale l’innovazione tecnologica per garantire la resilienza e il successo delle imprese e delle istituzioni.
Restano però tante sfide chiave. Ne cito solo tre:
- Infrastrutture digitali: dobbiamo superare i nodi - anche burocratici - che complicano gli investimenti nelle infrastrutture digitali, come la banda larga e la rete 5G, cruciali per garantire una connettività rapida e affidabile in tutto il territorio nazionale.
- Ricerca e innovazione: l’Italia deve aumentare gli investimenti in ricerca di base e applicata e in termini di trasferimento tecnologico. L’economista Mariana Mazzucato, appunto, ha parlato di Stato innovatore. Creare un ecosistema favorevole all’innovazione, magari sul modello francese, che coinvolga università, centri di ricerca, imprese e start-up, è necessario per restare competitivi a livello internazionale.
- Digitalizzazione del settore pubblico: vitale per migliorare l’efficienza e la trasparenza delle istituzioni e offrire servizi più rapidi e accessibili ai cittadini. Qui in particolare il PNRR può fare veramente la differenza, ma dobbiamo sfruttare bene l’opportunità che l’Europa ci sta offrendo.
Ritieni che ci sia ancora un po’ di confusione sul significato di AI? ChatGpt è stata sopravvalutata o veramente abbiamo a che fare con una tecnologia della quale non conosciamo ancora bene il grande potenziale?
Parto dalla fine: non credo che ChatGpt sia stata sopravvalutata, nonostante l’hype. Siamo in piena “AI spring”, in un periodo di eccezionale fioritura delle applicazioni dell’intelligenza artificiale, grazie a una fortunata combinazione di fattori: enormi progressi nella ricerca, disponibilità di capacità computazionale a costo relativamente basso e in quantità pressoché illimitata, finanziamenti pubblici e privati, competizione internazionale.
Eppure molto probabilmente non siamo più vicini all’emergere di un’intelligenza artificiale generale, vale a dire “umana”, di quanto lo fossimo dieci anni fa. Va detto, ad esempio, che pur essendo in grado di generare risposte coerenti e plausibili a una vasta gamma di domande, ChatGpt è fondamentalmente uno strumento che simula l’intelligenza umana, non certo un’intelligenza autonoma con coscienza e intenzionalità proprie. Anzi, in un certo senso potremmo affermare, semplificando grossolanamente, che un prodotto come ChatGpt ha minore cognizione semantica dei testi che produce di quanto ne avessero i sistemi esperti degli anni ’80, perché la grande disponibilità di potenza di calcolo ha rimpiazzato la necessità di dotare il sistema di un’architettura formale della conoscenza.
Pertanto, è importante considerare ChatGpt e altri modelli di AI come strumenti avanzati che possono essere utilizzati per migliorare le nostre capacità in diversi contesti, ma che presentano anche limitazioni intrinseche. Sono sicuramente infondate le preoccupazioni legate all’emergere di una “super-intelligenza” alla Nick Bostrom o altri scenari apocalittici; invece è molto più concreta la preoccupazione legata alla protezione dei dati personali, alla trasparenza, alla sicurezza, alla responsabilità, all’etica. Pensiamo ad esempio all’utilizzo di strumenti di AI generativa come ChatGpt in un contesto sanitario, giudiziario o finanziario: le decisioni e le raccomandazioni fornite da questi sistemi possono avere un impatto significativo sulla vita delle persone.
Senza, poi, contare l’impatto dell’intelligenza artificiale sul futuro del lavoro in generale. Assisteremo a una trasformazione delle competenze richieste, all’automazione di molte mansioni - con conseguente perdita di posti di lavoro - e per contro alla creazione di nuove opportunità professionali. Ma è una transizione che dobbiamo governare.