Simone Terreni è imprenditore, managing director dalla VoipVoice di Montelupo Fiorentino, ma anche formatore e divulgatore di cultura digitale. Innovatore tecnologico - attraverso i servizi VoIP e connettività promuove la digitalizzazione delle telecomunicazioni e lo smart working in tutta Italia - lo scorso anno è stato inserito tra i 100 Top Manager Italiani da Forbes. È stato speaker allo Smart Working Day 2021 a Milano e Roma e il nostro magazine lo ha intervistato per approfondire il suo pensiero.
A VoipVoice avete fatto fronte alla “quarta ondata” della pandemia chiudendo la sede a dicembre e tornando tutti in smart working.
Noi siamo abituati, lo avevamo già fatto durante il lockdown del 2020 e a rotazione eravamo rimasti in modalità ibrida lavoro in presenza/ da remoto. Il punto è che non è bello farlo tutti i giorni a casa, ma il periodo ci costringe a un atto di responsabilità, anche perché un focolaio in azienda si riflette sulla famiglia e viceversa. Credo che tutte le aziende dovrebbero attuare forme di smart working adesso, se non ora quando?
Eppure noto ancora una certa ritrosia, come se non si fosse capito che la nuova normalità è questa. Forse c’è mancanza di fiducia, organizzazione o tecnologia. I nodi sono quelli di sempre, pandemia o meno: chi non concede lo smart working – e ne avrebbe gli strumenti - non ha capito che il collaboratore non deve rendere conto del tempo bensì dei risultati. Il concetto delle 8 ore è vecchio e non porta a nessun incremento produttivo.
Hai scritto una guida pratica – “Lo Smart Working non si improvvisa” – uscita lo scorso anno ma concepita durante il lockdown. Cosa è cambiato alla luce dell’attualità?
Il libro è un instant book, pensato raccogliendo con organicità tutti i post su LinkedIn e le riflessioni fatte sul tema. Mi pareva che ogni volta nel dibattito fossi costretto ripartire da capo, la cosa peggiore che avevo notato dai commenti ai miei post era la mancanza di una cultura di fondo. Come se il disagio del remote working che stavano tutti sperimentando avesse reso l’argomento del lavoro agile un’utopia.
Quindi ho provato a fare la mia guida, non pretendevo di essere esaustivo, ma mettere dei punti fermi per una piccola-media impresa. Cioè che fosse valida per buona parte delle realtà aziendali simili alla mia per renderlo applicabile. Dalla mia ricerca ho scoperto che potenzialmente lo smart working in Italia potrebbe riguardare fino a 11 milioni di persone, considerato che la nostra popolazione di lavoratori è 23 milioni.
VoipVoice come è organizzata per il lavoro agile?
VoipVoice è organizzata per permettere lo smart working anche in azienda. Non voglio si faccia “telelavoro”, per questo la nostra nuova sede è stata pensata con un’attenzione agli spazi. Un tempo avevamo tutti il desk fisso ma adesso, considerando che siamo cresciuti molto fino a 37 collaboratori, c’è attenzione per gli spazi comuni. Ad esempio il reparto marketing ha 4 postazioni per 5 addetti. Sta a loro organizzarsi, da noi tutti i documenti sono in cloud, i collaboratori sono tutti dotati di strumenti per fare smart working ovunque.
VoipVoice ha fatto un investimento, dotando tutti di un PC, cuffie, connessione, un sistema voip… Ponendola in termini “brutali”, lo smart working ha un costo?
Quando si parla di lavoro agile come facciamo noi è come se avessi aperto 37 sedi. Non si può pensare di scaricare i costi sul dipendente che a casa deve arrangiarsi, finisce per essere un boomerang per l’azienda. Occorre dotare le persone di computer ma anche di connettività e router con SIM aziendale. Questa è la dotazione minima, altrimenti si è degli irresponsabili a non curare la sicurezza, devono essere forniti tutti gli strumenti che si dispone in azienda, qui non parliamo di nomadismo digitale.
Anche io ti rispondo con una metafora in termini “brutali”: ti immagini una ditta idraulica che manda i suoi operai in cantiere facendogli usare la loro cassetta degli attrezzi domestica? Inconcepibile, esattamente come far usare una connessione domestica non protetta. In più, da noi diamo un bonus mensile, questi soldi devono servire al collaboratore per dotarsi degli strumenti ulteriori di cui possono necessitare, ad esempio una sedia ergonomica.
Permane però il grande tema della capacità di verificare i risultati dello smart working?
Considera che due volte l’anno, a gennaio e luglio, incontro tutti i collaboratori a uno a uno, per monitorare insieme i risultati del semestre appena trascorso e faccio la proposta – gli obbiettivi non vanno imposti, bensì proposti – per il periodo successivo. Non ho bisogno di controllare quello che accade nel semestre, lo vedo dagli stati di avanzamento dei report.
Con quello valuto le prestazioni e le performance. Il lavoro del manager è quello di pianificare correttamente, i numeri non mentiranno. Poi a mio avviso gli obiettivi devono essere premianti, prevedere degli incentivi, anche perché spesso quando non si raggiunge una soglia c’è stata una cattiva pianificazione del manager.
Vorremmo chiudere con una domanda che facciamo spesso, ovvero che idea ti sei fatto del “future of work” post-pandemia?
Premesso che temo la pandemia ormai sia ciclica e destinata a ripresentarsi puntualmente, combatteremo ancora a lungo con organizzazioni del lavoro vetuste. Io stesso sono stato accusato da colleghi imprenditori di applicare un modello troppo sbilanciato a favore dei collaboratori. Ma è la grande maggioranza delle piccole medie-imprese che deve adeguarsi. Peccato, perché quello che è accaduto negli ultimi due anni dimostra lo smart working fattibile, che la produttività non diminuisce, quindi il manager sveglio deve tenere di conto dei numeri che legge.
Tra l’altro è diventato reale il rischio – che prima magari non c’era – di perdere un dipendente perché gli offrono il bonus di fare lo smart working. Fortunatamente i giovani, gli imprenditori del domani, lo danno come assodato, rendendo inesorabile l’arrivo di un nuovo modello organizzativo.
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