Claudio Simoncini è uno Psicologo Sperimentale e Neuroscienziato attualmente residente in Francia. Ha lavorato come ricercatore presso l’Università degli Studi di Firenze, il Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) di Marsiglia e The University of Chicago negli Stati Uniti. Abbiamo fatto con lui un punto sullo smart working d’Oltralpe e una riflessione più generale sulle difficoltà d’adattamento al lavoro da remoto.
Per prima cosa vorrei sapere se la Francia ha una normativa sul travail agil?
La Francia, come molti altri paesi stranieri, non ha una normativa specifica come quella varata in Italia. Facendo una ricerca su internet però, si trovano molti articoli, apparsi su giornali francesi, dove si elogia la nostra legge 81/2017.
Ciò indica che c’è un certo interesse rivolto verso leggi di questo tipo. Anche se, per adesso, il governo con la recente riforma della Loi Travail del 2017, ha preferito rendere più flessibile il telelavoro. Credo dipenda dal fatto che lo smart working qui, fosse già molto diffuso prima della pandemia. Come percentuale stimata sul totale dei lavoratori, infatti, il paese si posizionava già nel 2019 subito dietro gli scandinavi.
Comunque è difficile stabilire la correttezza di queste percentuali. Non essendoci una normativa, tutto il lavoro non svolto in ufficio è sempre stato considerato come smart working anche se poi concretamente non lo era.
Qual è la tua opinione sulla presenza di una normativa specifica invece?
Ritengo interessante il fatto che l’Italia con la legge 81/2017 abbia anticipato molte delle problematiche legate al lavoro in modalità agile. È il rovescio buono della medaglia della nostra cultura, legiferare su tutti gli aspetti della vita sociale.
In questo campo tuttavia, il legislatore probabilmente è andato più avanti rispetto alla cultura del management, alle aziende e anche ai lavoratori. Purtroppo le persone non si sono evolute di pari passo con la tecnologia. Non è stato fatto un salto di livello nella leadership e nella gestione delle risorse. A mio avviso c'è solo un aumento dell’impiego del digitale, gli italiani sono ancora molto legati al lavoro in presenza.
Com’è lo smart working per chi fa ricerca in un campo accademico?
Il settore accademico è uno di quelli dove non è definito il confine tra lavoro e vita privata, soprattutto quando si parla di ricerca. Io fin da quando mi sono trasferito in Francia nel 2008 , mi sono abituato a lavorare da remoto, tra l’altro con un dispositivo fornito dall’università. In Italia, invece, era una pratica meno diffusa all’epoca, e in parte tutt’ora c’è meno libertà.
Comunque in generale, se si escludono attività che vanno per forza svolte in loco, come gli esperimenti, un ricercatore può portare a termine il resto del lavoro - analisi dati, scrittura articoli scientifici - ovunque.
Perfino le riunioni si fanno spesso da remoto, collaborazioni con colleghi residenti in altri continenti e con fuso orario differente si traducono in call in orari pressoché assurdi.
A tuo avviso quali sono gli ostacoli psicologici e i rischi del lavoro agile in isolamento?
Prima di tutto si deve sottolineare che ad avere più difficoltà, sono le persone abituate a lavorare in ufficio, in presenza. L’isolamento distrugge tutte le loro routine, le pause caffè, i pranzi, perfino lo stacco tra la vita a casa e il lavoro.
Internet ha abbattuto l’ostacolo della distanza. Ma, per coloro che non sono abituati a spostamenti per motivi professionali, è più difficile operare in mancanza della presenza. Partendo da questo, si capisce meglio il sentimento emotivo di vuoto e distanza che alcune persone provano nel momento in cui chiudono le video call con i colleghi.
Inoltre, le persone fin dalla scuola primaria, sono inserite in un sistema di regole e momenti di verifica, da qui la difficoltà, emersa per alcuni, all’organizzarsi mentalmente e pianificare da soli la propria giornata, attitudini essenziali nello smart working.
Comunque, se da un lato si trovano studi scientifici che esplorano lo stress da smart worker da un altro si registra anche l’aumento di richieste per continuare a lavorare in modalità agile al termine dell’emergenza sanitaria.
Non è una contraddizione, solo la diversa capacità di darsi delle regole, come ad esempio il “diritto alla disconnessione”. In questo, chiudendo il cerchio, la norma italiana dimostra di essere stata attenta.
Infine, vedi nuove tendenze sociali a seguito dello smart working?
C’è una curiosità che mi ha colpito e riguarda la “casa del futuro”. Dato che nei prossimi anni si prevede, nei paesi tecnologicamente avanzati, un aumento del 25% dei lavoratori in modalità agile, alcuni architetti si sono spinti oltre immaginando l’abitazione ideale dello smart worker.
L’idea è quella di ridurre la parte abitativa della casa per realizzare giardini e terrazze più grandi. All’interno dei quali, costruire percorsi che conducono dalla zona dell’appartamento adibita ad alloggio fino alla stanza utilizzata per l’ufficio. Lo smart worker in questo modo, potrà effettuare un percorso a piedi come se idealmente andasse a lavoro!