Come procede l'inserimento dello smart working nella PA e quali sono le azioni che potrebbero portare ad un miglioramento dell'organizzazione lavorativa tramite il lavoro agile? Lo abbiamo chiesto al segretario della FLI (Federazione Lavoratori Italiani) Marco Carlomagno.
Smart working e PA. Questi due appellativi li abbiamo sentiti insieme solo nel 2020, ma in realtà, una sorta di modernizzazione nel mondo del lavoro che consentisse di poter lavorare da casa, se n’era già iniziato a parlare già nel ’98 con la legge 191 che introduceva il telelavoro. Cosa si è fatto in questi 23 anni e cos’è successo durante la pandemia?
Non si è fatto nulla. Solo la legge 81 del 2017 ha definito e ha dato anche dei tempi su quello che è il lavoro agile sia nel lavoro pubblico che privato. Ma in pratica, si è fatto quasi nulla nel lavoro agile nella pubblica amministrazione per cui quel 10% a cui si doveva arrivare per impiegare personale in smart working è stato poco. Pochissime amministrazioni l’hanno effettivamente adottato. E la pandemia ha reso il lavoro agile uno smart working emergenziale: si è deciso di tenere a casa il personale in una sorta di lavoro da remoto, un home working. Si è trasformato il lavoro agile in un telelavoro, che è un’altra cosa.
Il lavoro agile è una cosa totalmente diversa: non è fare le stesse cose in ufficio direttamente a casa tua (come nel caso del telelavoro), ma è un concetto totalmente diverso che si basa sulla fiducia nel dipendente e che viene organizzato per obiettivi. Non l’adempimento burocratico, non iniziando a quell’ora e finendo a quell’ora. Non è questo il lavoro agile e non è questa la modalità di qualsiasi “lavoro intelligente”. Non si basa sul remunerare l’orario di lavoro, ma calcolandone i risultati. Quindi, un’organizzazione del lavoro che deve essere misurabile e realizzabile per assegnare obiettivi e per dare fiducia al lavoratore. In Italia abbiamo un sistema arcaico di lavoro in cui c’è un controllo ossessivo risalente all’800/900, che deve verificare cosa fai e dove sei.
Il lavoro da casa ha permesso così di credere che un livello organizzativo del genere, in cui non è necessario essere sotto estremo controllo da parte dell’alto, può essere realizzabile. Non più attraverso l’assegnazione del lavoro in modo verticistico da capi e capetti, ma per obiettivi realizzabili tramite il team, mettendo al centro la fiducia nel lavoratore. Come disse Steve Jobs:
“Se io assumo persone intelligenti lo faccio non per dire cosa devono fare loro, ma per sapere da loro cosa devo fare per migliorare la mia azienda”.
Ed è questo che cerchiamo di fare nella pubblica amministrazione. Ci sono stati però anche casi in cui si è rimasti alla concezione arcaica quasi feudale per cui il leader è rimasto ancorato al vecchio concetto di “tu lavori e ti dico io cosa devi fare” e si è dimostrata una totale incapacità manageriale.
Ecco, con lo smart working nella PA si vuole arrivare nella logica dell’engagement: coinvolgere il dipendente nella vision e negli obiettivi dell’amministrazione, investendo in formazione e in benessere organizzativo, mettendo al centro la persona con un retaggio di personale valido.
A proposito di retaggio di personale valido, ultimamente il decreto Brunetta ha adottato una serie di misure riguardo a nuove assunzioni relative al processo di digitalizzazione. Può essere questo un modo per contrastare i problemi che ci sono nell’adottare un nuovo modo di lavorare con lo smart working?
Certo, soprattutto perché oggi abbiamo una PA vecchia con una media di 56,2- 62 anni, per cui c’è bisogno di un cambiamento generazionale.
Quindi, ben vengano le assunzioni purché gli impiegati vengano assunti stabilmente, non in precariato. Abbiamo bisogno di giovani, di neolaureati. Altrimenti cominciamo a fare il solito discorso di richiesta di persone con concorsi iperselettivi nei quali si richiede un’esperienza e tipo di specializzazione di alto livello per posizioni di lavoro con contratti di stage o con uno stipendio medio di 1.200-1300 euro al mese. Bisogna creare concorsi ad hoc in base alla posizione richiesta con un modello di retribuzione altrettanto ad hoc. Per questo c’è bisogno di un radicale cambio anche in livelli di formazione.
Parliamo ad esempio della “metodologia BIM (Building Information Modeling)” introdotta nel 2016 dal Codice degli Appalti: un ingegnere tecnico assunto nel 2013 non sa nulla della metodologia BIM (Building Information Modeling). In un’organizzazione del lavoro agile, quando si parla di team si parla di collaboratori e non di dipendenti. Eppure la conoscenza di questo ancora manca…
Riguardo alla figura Mobility Manager, anche questa è una di quelle cose sempre dette ma che solo con la pandemia sembra diventata una figura necessaria per riqualificare la cosiddetta work-life balance. Fu introdotta già dal ’97, eppure, quanti sono oggi i mobility manager in Italia?
Sono quasi inesistenti. Anche i CUG (Comitati Unitari di Garanzia) presenti nelle PA, che dovrebbero occuparsi del benessere organizzativo, sono quelle cose tanto conclamate ma con pochi poteri. La mobilità diventa oggi un discorso fondamentale per agevolare i dipendenti con un’organizzazione efficiente anche nella questione dei trasporti. Purtroppo l’Italia è un paese in cui se non siamo obbligati al cambiamento, rimane tutto così com’è.
La pandemia ha portato ad una riconsiderazione di cose già stabilite ma per le quali non si era arrivato ad un effettivo cambiamento. Non solo in termini di lavoro, ma anche per una questione proprio culturale legata anche ad una vita che può essere migliore per tanti aspetti in aiuto anche all’economia locale ed economia rionale: il fatto di facilitare il lavoro agile e poter lavorare due giorni a settimana a casa, consente di poter vivere all’interno del proprio quartiere, di andare nei mercati rionali, nei bar sotto casa e nei piccoli market, senza doversi spostare nel cosiddetto business center o centro cittadino.
Riguardo la work-life balance bisogna riconsiderare anche la diminuzione degli orari di lavoro: si può lavorare meno ore se c’è una struttura organizzativa che include di assegnare degli obiettivi ai dipendenti che portino ad una crescita in termini di produttività attraverso lo snellimento di forme burocratiche di cui oggi con la tecnologia, smartphone e app, possiamo fare a meno. Ma c’è proprio bisogno di un cambiamento culturale…
Un cambiamento più culturale che burocratico…
C’è bisogno di cambiamento culturale, organizzativo, in cui ci si pone come obiettivo quello che dice l’articolo 98 della Costituzione “i dipendenti pubblici sono al servizio esclusivo della Nazione”, non del singolo ente. Il dipendente pubblico dovrebbe essere messo in condizione e valorizzato per lavorare al meglio e porre un servizio eccellente al cittadino.
Non per gli adempimenti burocratici per cui si dice ai cittadini “mi deve portare questo, ripassi fra 15 giorni per riportarmi quell’altra foto in allegato a quel documento”. Quindi occorre un cambiamento radicale con assunzioni, cambio di mentalità, riorganizzazione del lavoro in base ai risultati - quindi al servizio del cittadino - indipendentemente da quale sia l’amministrazione (che sia regionale, comunale, provinciale, statale).
Se si arriva a fare questo non sarà più il cittadino a doversi procurare i documenti per una semplice richiesta, ma sarà l’ente pubblico a preoccuparsi di reperire quel documento da un altro ente per via telematica. Ma se non avvengono catastrofi, com’è successo con la pandemia, tutte le cose già stabilite e di cui si parla già da dieci anni, non vengono realmente attuate, compreso il mobility manager.