Silvia Zanella si occupa e scrive di futuro del lavoro come manager, public speaker, autrice e giornalista professionista. Ha un’esperienza di 20 anni in multinazionali operanti nei servizi come Direttore Marketing, Comunicazione e Employee Experience e nel 2021 è stata nominata Linkedin Top Voice Lavoro.
A Smart Working Magazine abbiamo deciso di intervistarla per presentare ai nostri lettori la sua opinione su alcuni dei temi più caldi in materia di lavoro, trattati spesso dalla nostra testata come il future of work, i nuovi modelli organizzativi o il social recruiting.
Si parla sempre più spesso di “futuro del lavoro”, vorrei chiederle qual è il significato che lei associa a questo concetto e se questo futuro magari è già arrivato?
Credo che il “futuro del lavoro” sia qualcosa già arrivato e la pandemia l’abbia solo accelerato. Si erano già spezzate le coordinate spazio-temporali, adesso è in ballo più una dimensione valoriale-culturale del lavoro. Abbiamo una gigantesca opportunità per riscriverlo e ridisegnarlo con valori nuovi e proprietà nuove, che in primis mettano al centro la sostenibilità delle persone.
Il suo nuovo libro Il futuro del lavoro è femmina, edito da Bompiani, tratta di come cambieranno modelli organizzativi e stili di leadership nel prossimo futuro, con un occhio al femminile. L'assunto, se ho ben capito, è che "femminili" saranno le competenze e i modi di lavorare. Vuole farci un breve commento in merito?
Fondamentalmente non si tratta di una prospettiva di genere, ma di andare a prendere quelle competenze che finora sono state attribuite in maniera stereotipata alle donne - l’empatia, la cura, la sensibilità, la capacità d’ascolto, comunicazione, d’emozionarsi - e metterle a disposizione del team. Ritengo che se queste competenze “soft” vengono finalmente sdoganate, anche le competenze “hard” ne trarranno giovamento.
È stata una delle prime sostenitrici dello smart working in Italia - nel frattempo c'è stata una pandemia e tutto quello che ha comportato - eppure l'idea che ci siamo fatti a Smart Working Magazine è che occorre ancora a spiegare cos'è una cultura “smart” del lavoro. Cosa ne pensa?
Diciamo che i pochi che avevano avuto il privilegio di fare il vero smart working già da prima della pandemia, anche da molto prima magari, hanno vissuto con serenità l’esperienza di una nuova modalità organizzativa. Chi ci si è ritrovato dall’oggi al domani, senza avere la cultura o la formazione necessaria, non ha goduto di tutte le opportunità. O anzi l’ha vissuta proprio male.
C’è da ribadire ancora che lo smart working non è da confondersi con il remote working, perché il lavoro agile prevede tutte le dimensioni del lavoro. Il focus è sul risultato e non “come”, “dove” e “quando” lo fai, l’importante è essere responsabili del proprio tempo e dei propri spazi insieme al tuo team. Credo sia normale un rallentamento della diffusione dello smart working, se non dei veri e propri tentativi di restaurazione, ma al tempo stesso penso anche che le persone abbiano apprezzato il lavoro agile. Se opportunamente “acculturate” possono rappresentare un vantaggio competitivo anche per quelle imprese che faticano a trovare certi candidati.
Com’è la sua giornata tipo da smart worker?
La mia giornata tipo è molto semplice. Comincio a lavorare dopo aver accompagnato mio figlio a scuola, quindi piuttosto presto, e tendenzialmente da casa. Soprattutto in quei giorni in cui ho molte call in agenda. Lavorando con molti team diversi, dislocati su tutto il territorio e pure con l’estero, perché ho anche un ruolo internazionale, è normale che non voglia disturbare gli altri in ufficio con la mia voce.
Così, in base all’attività, scelgo la mia destinazione. Ragion per cui quando mi riunisco con il mio team, almeno una volta la settimana - o eventi con cadenza frequente - preferisco essere in presenza. D’altra parte non bisogna far venire meno il capitale sociale che è la componente essenziale del nostro lavoro!
L’ultima domanda riguarda l’affascinante mondo dei social. Nel 2018 la contattai su LinkedIn e ci scambiammo delle considerazioni in merito alla social reputation. Instagram era al suo top, Facebook stava segnando il passo e TikTok non lo conoscevamo ancora. Queste piattaforme sono ancora così importanti o a suo avviso stiamo entrando già nell’era post-social?
Io per prima, alcuni anni fa, ho scritto un paio di libri - che si chiamavano Social recruiter e Digital recruiter - in cui cercavo di capire quale fosse l’impatto dei social sulla ricerca e selezione del personale, nonché sul personal branding. Gli anni d’oro dei social erano quelli del decennio passato infatti e bisogna ammettere che sono stati anche molto affascinanti. Temo purtroppo che negli ultimi anni si sia molto depauperato il panorama e il contenuto di questo tipo di piattaforme. Adesso dobbiamo essere molto accorti per avere una visione più ricca sul contributo che i social network possono effettivamente portare.
Quindi, sì, diciamo che stiamo entrando in un’era “post” e mi auguro che anche in questo caso sia più appagante per tutti.