Alla luce del recente disastro ambientale registrato in Italia, e più precisamente in Emilia Romagna, è normale guardare con più attenzione ad una condizione che sta affliggendo un numero crescente di persone, specialmente giovani perlopiù appartenenti alla Generazione Z: L’eco-ansia.
Fino ad ora però, alla Generazione Z è stato imputato il fatto di spingere troppo verso lo smart working e nel lavoro da remoto, considerato alienante e causa di altre patologie. Ma oltre a dare nuove possibilità lavorative a chi vive in luoghi, appunto, remoti, il remote working potrebbe essere una parziale soluzione all’eco-ansia.
L’eco-ansia è definita come “la sensazione generalizzata che le basi ecologiche dell’esistenza siano in procinto di crollare” (Albrecht, 2019). In altre parole, la situazione climatica attuale provoca un malessere reale e piuttosto allarmante nelle persone, tanto che in alcuni casi l’eco-ansia è talmente forte da risultare necessario un supporto terapeutico.
L’American Psychological Association (APA) e l’Organizzazione Mondiale Della Sanità (OMS) non hanno ancora riconosciuto questa forma d’ansia come condizione diagnosticabile. Tuttavia, il dibattito sembra propendere per una sua prossima inclusione in questa categoria.
Testimonianza del fatto che l’argomento suscita quantomeno preoccupazione nella comunità scientifica e tra gli enti governativi, è il recente studio portato a termine dall’Osservatorio Europeo del Clima e della Salute e pubblicato come “Climate change impacts on mental health in Europe. An overview of evidence (2022).”
Da una disamina dello studio, si evince che forme di ansia, depressione e disturbo post-traumatico da stress, sono spesso la conseguenza di una serie di circostanze che appaiono fuori dal controllo diretto dei soggetti afflitti.
Quindi, la sensazione di non avere il controllo su un tema così delicato, contribuisce in modo determinante all’aumento di uno stato d’inquietudine. Verrebbe naturale pensare che qualsiasi cosa in grado di dare maggior potere decisionale sul proprio impatto ambientale, risulterebbe terapeutica.
Ecco che il remote working potrebbe arrivare in soccorso dei più giovani che, lavorando dalla propria abitazione o da un luogo da loro scelto, riuscirebbero a ridurre drasticamente il consumo energetico, o perlomeno, avere il controllo di come gestire le proprie risorse. Ma in che modo?
Il primo dato alquanto eloquente mostra chiaramente che l’auto privata, perlopiù a benzina o gasolio, sia il mezzo scelto dal 76,4% della popolazione che si reca a lavoro. Secondo alcuni dati questa tendenza incide per il 50% dell’immissione di polveri sottili nell’aria. Il remote working risolverebbe questo problema, o darebbe l’opportunità, almeno, di non sentirsi parte di esso.
Altra questione è il consumo di energia elettrica. Andare in un ufficio in cui ci sono utenze accese giorno e notte accresce inutilmente l’irrequietezza dovuta ad un consumo, in molti casi, irresponsabile. Ecco che avere la possibilità di decidere come utilizzare la propria energia può avere un impatto positivo sulla salute mentale degli utenti. Come? Per esempio, utilizzando lampade al led, che può portare ad un risparmio energetico del 30% circa.
Altri studi hanno dimostrato come lo smart working, e più precisamente il lavoro da remoto, abbia inciso positivamente sulla riduzione dell'inquinamento. Durante il recente lockdown le emissioni di CO2 sono diminuite del 20% circa, ma sono rimaste un 10% al di sotto della media anche dopo il ritorno alla nuova normalità, in cui il lavoro da remoto ha mantenuto un livello superiore rispetto alla pre-pandemia.
In conclusione, le aziende che, come sembra, tengono sempre più in considerazione la salute mentale dei propri dipendenti, devono per forza di cose mantenere e, talvolta, incrementare il lavoro da remoto. Così facendo andrebbero a diminuire il loro impatto ambientale oltre ad incrementare la propria reputazione e attrarre i talenti emergenti della Generazione Z, i quali verrebbero messi anche nella condizione di sentirsi un po’ più padroni del loro destino.