Quando Zoom - l’azienda che più ha tratto benefici dal remote working pandemico - ha richiamato i lavoratori nei loro uffici la notizia ha fatto il giro del mondo. La lunga lista dei colossi della tecnologia che avevano chiesto al personale di presentarsi in ufficio almeno due/tre giorni alla settimana, dopo Apple, Google, Meta e Amazon si era allungata.
In questo trend, Elon Musk per primo aveva tuonato contro i lavoratori da remoto invitandoli a rientrare in sede e Jamie Dimon, il potente CEO della banca JP Morgan Chase, aveva dichiarato che le settimane da cinque giorni lavorativi in ufficio sarebbero tornate in via definitiva. Non è proprio così e un’indagine del Financial Times, se non smentisce le parole di quest'ultimo, decisamente restituisce un quadro a tinte più sfumate.
<<Non fa notizia che ci sia una percentuale maggiore di aziende che passa dal tempo pieno in ufficio a una maggiore flessibilità>>, afferma Brian Elliott, co-fondatore di Future Forum, un consorzio americano sul futuro del lavoro lanciato nel 2020. La percentuale di aziende statunitensi che richiedono la presenza in ufficio a tempo pieno è scesa dal 49% a gennaio al 39% a luglio. Nel solito arco temporale, il modello ibrido - basato su un numero minimo di giorni in ufficio - è aumentato al 28% rispetto al 20% d’inizio dell’anno.
I desiderata dei manager e quelli dei loro collaboratori.
Come spiega la Stanford University, i lavoratori valutano i benefici dello smart working quanto un aumento dello stipendio pari all’8% e un risparmio medio di 72 minuti al giorno in spostamenti. Secondo il nuovo rapporto di Flex Index, in media le aziende statunitensi stipulano 2,56 giorni in ufficio a settimana, a metà strada tra ciò che i manager desiderano, ovvero 2,75 giorni contro i 2,21 che i collaboratori vorrebbero.
Le differenze negli stili di lavoro tra management e personale spiegano in parte questa mancata corrispondenza delle aspettative per il lavoro in ufficio. Il Boston Consulting Group sostiene da una sua ricerca che i manager dedicano quasi la metà del loro tempo a compiti che richiedono un incontro di persona, rispetto ai loro collaboratori che trascorrono più tempo su “focus work” eseguibili anche da remoto.
Il Financial Times, sempre citando vari esempi di realtà anglosassoni - dalla banca britannica HSBC alla software house australiana Atlassian - spiega che i manager vorrebbero far comprendere ai loro collaboratori più giovani che l’ufficio non è "presenzialismo" ma investimento nella loro carriera e che i task importanti andrebbero condivisi con il team in presenza. Se alcune ricerche paiono confermare i timori dei CEO sulla produttività in calo per chi si trova in modalità full-remote, allo stesso tempo il modello ibrido emerge come quello più produttivo. È punto d’incontro ideale tra le parti?
Il modello ibrido segnerà la “tregua” tra aziende e lavoratori.
Giova ricordare che lo smart working non è solo operatività da remoto, bensì una modalità “intelligente” che libera da tempo e luogo, con l’ufficio che resta un luogo funzionale nello svolgimento di alcune attività. Qualunque sarà il risultato della auspicata tregua, la scelta del “dove lavorare” non può essere subordinata ai singoli, bensì concordata all’interno dell’organizzazione. Perché molte aziende si stanno rendendo conto che il successo dello smart working non è il risultato di un semplice calcolo su spazio dell’ufficio per tempo trascorso in esso, ma richiede la formazione di leader per gestire team ibridi.