I dipendenti e spesso pure le aziende hanno capito che la qualità della vita spinge l’efficienza. Stavolta sono gli americani, dopo finlandesi, spagnoli e islandesi, a rilanciare sulla settimana corta come proposta di ripartenza del lavoro post Sars-CoV 2. Dopo un anno in remote working le aziende americane avevano spinto per il ritorno dei collaboratori in sede - Google ha addirittura acquistato numerosi immobili, dal Texas a New York, per farci nuovi uffici – ma il modello organizzativo è apparso di colpo obsoleto.
Tutti ricorderanno la minaccia di alcuni dipendenti Apple a primavera pronti a licenziarsi se fosse stato revocato loro lo smart working. Il punto è che ad ogni latitudine non si vuole più tornare indietro e se sono gli yankees a voler cambiare passo c’è da riflettere. Partiamo da un assunto, gli americani sono dei gran lavoratori, non al livello dei workaholics giapponesi ma siamo lì: statisticamente, prima della pandemia, almeno un terzo degli americani lavorava mediamente 45 ore settimanali, con 8 milioni di “stakanovisti” addirittura 60 ore.
Adesso alla Camera dei deputati a Washington si sta discutendo una legge che introduca le 32 ore settimanali al posto delle attuali 40, introdotte nel 1938. Ovviamente a parità di salario, la notizia che Google volesse ridurre lo stipendio ai dipendenti in smart working non si è capito bene quanto fosse fondata o una fake news.
Premesso che su Smart Working magazine siamo soliti parlare di questo tipo di notizie, la questione in oggetto si fa ancora più interessante perché viene dagli USA, ovvero il paese preso a modello nel mondo occidentale su tutto. La nostra curiosità si rivolge soprattutto al pensiero di come una proposta del genere potrebbe essere accolta da Confindustria che ha già in passato alzato gli scudi contro l’ipotesi 35 ore alla francese. Breve storia per i più giovani: nel 1997, governo di centrosinistra a guida Romano Prodi, sulla scia della Francia la proposta nacque in seno all’allora partito di Rifondazione Comunista. Non se n’è mai potuto neppure discutere e fu insabbiata. E all’epoca c’era alla presidenza dell’associazione degli industriali il ben più accomodante Giorgio Fossa, rispetto all’attuale “spigoloso” Carlo Bonomi.
La settimana corta e l'Italia, un matrimonio impossibile?
Sulla settimana corta bisogna dire che, durante le crisi economiche del 2008 e 2020, su proposta dagli imprenditori, Confindustria pur tiepidamente non aveva chiuso all’idea della sperimentazione ma era in ottica di ottimizzare il ricorso alla cassa integrazione. Irricevibile quindi come modello organizzativo strutturale. Eppure proprio sul quotidiano di proprietà dell’Associazione, a luglio si narrava il successo dell’esperimento islandese al Comune di Reykjavik, durato quattro anni, sulla settimana corta.
Nel paese nordico dove mediamente, a dati 2018, si lavorava 44 ore settimanali era un continuo lamentarsi per la bassa produttività e l’insoddisfazione, come dall’articolo a firma Michele Pignatelli:
<< […] produttività a parte, l’effetto collaterale, ben descritto da uno studio del 2005, erano un disagio e un’insoddisfazione diffusi, con un lavoratore su quattro che si diceva incapace di far fronte alle incombenze domestiche una volta terminato il lavoro, lamentando una scarsa qualità della vita>>.
In un nostro precedente articolo di Miriam Belpanno avevamo accennato all’esperimento del 2019 alla sede giapponese di Microsoft. Qui avevano testato la settimana lavorativa di quattro giorni per 2.300 dipendenti e la produttività era aumentata del 40% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente.
Ora in Italia si lavora molto e si produce poco. Nelle classifiche OCSE il nostro Paese è contemporaneamente al vertice in quella per numero di ore lavorative medie settimanali e nei bassifondi in quella che calcola i livelli di produttività. Questo cortocircuito è ben spiegato nel saggio Tempo Rubato dell’esperto sui temi del mercato del lavoro Simone Fana, edito da Imprimatur, 2018, da cui traiamo un passaggio:
<< […] per trent’anni l’idea dominante è stata quella della produttività a tutti i costi. Bisognava lavorare di più per produrre di più, e questo ha ispirato tutte le politiche economiche del lavoro degli ultimi anni. La riduzione degli orari veniva vista come qualcosa che avrebbe ridotto la produttività e che avrebbe compromesso sostanzialmente la crescita>>.
Adesso che i dati certificano come la settimana lavorativa 5 giorni per 8 ore sia ormai un “residuo novecentesco” ci sarebbe da chiedere a Confindustria, altro residuo novecentesco, se non sia il caso di provare a cambiare qualcosa per lavorare meglio, considerando anche i risultati del remote working. Stai a vedere che gli americani li copiamo solo in merito a riforme sulla flessibilità del mercato del lavoro e non se scardinano lo status quo organizzativo aziendale.
Ma d’altra parte l’Italia è rimasta la retroguardia del neoliberismo, dopo che anche negli USA certe dottrine economiche iniziano ad essere seppellite.
Foto: Joe Biden © State Department Common Use via Flickr.