L’agenda di Guan Yue (nome fittizio con cui descriviamo il caso) doveva essere bella fitta: l’impegnata lavoratrice è finita in arresto per frode dopo aver accumulato 7 milioni di dollari grazie a ben 16 lavori diversi, svolti contemporaneamente e a distanza, senza mai presentarsi fisicamente. La frode si basava sul fatto che la donna si faceva passare per una professionista esperta con curriculum impressionanti e connessioni a clienti di alta qualità. Tuttavia, nella realtà, non ha mai effettivamente lavorato. Guan veniva assunta contemporaneamente da diverse aziende e incassava stipendi da tutte loro senza svolgere alcun vero lavoro. Le va almeno riconosciuta una grande capacità organizzativa.
L’indole di Guan Yue presenta infatti capacità manageriali: la donna si divideva abilmente da remoto tra le sue diverse aziende, e quando si presentava un nuovo colloquio Guan giustificava la sua assenza agli altri datori di lavoro affermando di essere con dei clienti oppure in riunione, dimostrando spesso la cosa per mezzo di fotografie. Al tempo stesso sapeva delegare: quando il lavoro diventava troppo veniva “lasciato in eredità” a qualche amico, non privandosi del guadagno ma commissionando il lascito. Non è chiaro se a muovere questa gran fatica sia stata la voglia di lavorare o la passione per ciò che ne derivasse a livello economico.
Perché limitare le possibilità del remote working?
Qualsiasi fosse lo scopo della donna, nell’arco di tre anni è riuscita a raggiungere la somma complessiva di 7 milioni di dollari e un team di ben 58 persone, marito compreso. A portare la vicenda a galla un’email sbagliata: Guan Yue avrebbe inviato delle dimissioni non solo all’azienda dalla quale si sottraeva ma ad altri enti che, notando l'accavallarsi delle date di impiego, hanno fatto partire le prime ricerche e hanno scoperto il complicato schema. Visto l’epilogo, resta dunque un dubbio: quale fine faranno questi soldi ora che Guan è imputata? Come riportato dal quotidiano cinese Xinmin, questo è sicuramente un caso iconico ma non l’unico. Infatti, la frode lavorativa in Cina vede sempre più lavoratori sfruttare il remote working per diventare, se non onnipresenti, per lo meno “sdoppiati”.
Sorge dunque la domanda: se il remote working può rendere la vita lavorativa più flessibile, perché limitarla a un singolo impiego (rimanendo all’interno del perimetro della legalità)? In ottica multitasking, la libertà pluri-lavorativa degli smart worker potrebbe essere una realtà, purché la qualità resti invariata e il lavoro sia svolto nei limiti etici e normativi. Limiti sicuramente oltrepassati dall’iconico caso riportato.
Nel dubbio, storie come quella di Guan Yue e simili dimostrano che la distanza tra la possibilità e la realizzazione di dividersi tra più lavori risiede nella trasparenza con cui ciò viene fatto: la gravità di una frode lavora sicuramente in direzione contraria allo sviluppo di un sano modello “pluri lavorativo”. In attesa di uno sviluppo in tal senso, però, c’è chi decide in ugual modo di tentare più carriere.
Ricordiamo infine che l’intero caso è giunto in Italia come la notizia di una frode svolta per mezzo di una persona in “smart working”. Va osservato però come il termine sia utilizzato solo in questo Paese per descrivere lo svolgimento di una mansione regolata da un contratto che ne stabilisce le modalità organizzative: è differente dunque dal lavoro da remoto. Con smart working si intende una libertà organizzativa circoscritta da una lunga serie di vantaggi, di cui la frode non fa sicuramente parte dell’elenco.