Sempre più smart worker vivono la solitudine come uno degli svantaggi principali del lavorare in modalità agile. Abbiamo chiesto alla psicologa del lavoro Claudia Campisi come ovviare a questa situazione e quali strategie gli HR possono mettere in atto.
Garantire il benessere di chi lavora in smart working vuol dire tenere conto di tutte le situazioni in cui le persone possono trovarsi, e soprattutto pensare a uno degli aspetti in cui ci si imbatte più spesso: la solitudine. Secondo un sondaggio pubblicato dal giornale online Telegraph, il 40% degli smart worker vive come svantaggio proprio quello di non confrontarsi quotidianamente con i colleghi.
Se quindi lo smart working, come sappiamo, è altamente richiesto dai dipendenti perché garantisce libertà, autonomia e responsabilizzazione, non bisogna dimenticare quanto sia necessaria la socialità. Ecco perché è importante che gli HR affrontino questo tema sovente e si mettano sempre più nei panni degli smart worker.
Ci aiuta a farlo, dando preziosi suggerimenti sia a chi lavora da remoto che soprattutto a chi gestisce persone, Claudia Campisi è psicologa del lavoro e LinkedIn Top Voice 2023.
Chi lavora da remoto vive in maniera critica il fatto di passare meno tempo con i propri colleghi. Secondo lei quanto tale aspetto influisce sul fatto di sentirsi soli e come si può ovviare a tutto questo?
Il digitale e le relazioni che sviluppiamo e viviamo da remoto non si possono equiparare a quelle che intratteniamo offline. Il bisogno naturale di contatto visivo, fisico ed emotivo nell’offline, per quanto possa esporci ad altri rischi, rimane qualitativamente più elevato e ‘nutriente’. Il lavoro da remoto può sfuggire di mano al professionista che, oltre al sentimento di alienazione, può avere difficoltà nel trovare un equilibrio rispettoso anche dei bisogni personali, come le pause, un momento di chiacchiera libera ecc… Per quanto si possa provare a replicare tale modalità con un collega a distanza, è indubbio che non si riesca a mantenere nella quotidianità alla stregua di quanto, al contrario accade, in chi vive la routine dell’ufficio condiviso.
Per chi lavora come dipendente è possibile rinegoziare la proporzione del proprio orario settimanale, trovando una soluzione capace di dare risposta al bisogno di relazione.
Per chi lavora come libero professionista si può ovviare a tutto questo mettendo in agenda occasioni di incontro e di relazione non mediati dal web. Partecipando attivamente ad eventi, opportunità di networking.
È fondamentale ascoltarsi e decifrare con precisione il proprio bisogno e adoperarsi per darvi risposta. Suggerisco anche di condividere questo vissuto con altri colleghi e/o conoscenti per cogliere eventuali suggerimenti e occasioni di relazioni. Chi fa parte di una categoria professionale ben precisa potrebbe aderire ad associazioni ma anche a community di settore. Il consiglio è pertanto quello di non lasciare inascoltato questo malessere e di provare ad accoglierlo inserendo nuove piccole abitudini.
A suo modo di vedere, il lavoro in modalità smart aumenta la solitudine o, se ben gestito - magari dando la possibilità di lavorare da altre location con persone diverse - può essere un arricchimento?
In questo caso ho il piacere di risponderle sia come psicologa del lavoro che come libera professionista. Lo smart working sollecita il ricorso a competenze e abilità relazionali inedite che spesso nelle organizzazioni rientrano tra le responsabilità delle figure manageriali. Quello che è stato chiesto, di fatto implicitamente, ai lavoratori in termini di competenze è: la gestione del tempo, una digitalizzazione spinta, problem solving, e non ultima la capacità di prendersi cura in autonomia della propria motivazione.
L’investimento emotivo sul lavoratore da remoto è differente, viene meno lo sguardo, la prossimità emotiva e fisica, la qualità relazionale data da un’insieme di informazioni che sul web si perdono. Chi ha accettato questa sfida e ha lavorato su di sé ha acquisito tantissime nuove competenze trasversali. L'esperienza del lavoro da remoto ha avuto su ognuno di noi un impatto assolutamente personale. Come viviamo la sfera relazionale abitualmente è un ottimo predittore degli esiti di una modalità di lavoro che esprime con la mediazione del web la complessa componente emotiva e sociale insita in ogni relazione.
Da persona amante delle relazioni e del contatto fisico, confesso che sarebbe impensabile lavorare esclusivamente in smart working. Ecco perché sono una convinta sostenitrice di soluzioni creative orientate alla socializzazione e alla condivisione degli spazi intesi come esperienza.
Quando un lavoratore o lavoratrice oggi può sentirsi davvero solo?
Probabilmente nel momento in cui si rende conto che non interessa a nessuno del suo benessere/disagio. Il lavoro, anche quello più routinario e ripetitivo, è basato su una relazione. C'è chi è più predisposto a bastare a se stesso e chi soffre la riduzione di opportunità di confronto e di scambio informale. Qui non mi riferisco al lavoro in autonomia o in team ma alla possibilità di effettuare una pausa insieme ai colleghi, voltarsi e chiedere un'informazione al vicino di scrivania. Semplici gesti che sono alla base della motivazione che la mattina ci spinge a recarci con entusiasmo al lavoro. È pur vero che nella società odierna i dati spesso ci descrivono lavoratori infelici che vivono l'esperienza della solitudine anche quando inseriti all'interno di un gruppo eterogeneo.
Oggi la solitudine può subentrare quando non ci si sente compresi, apprezzati, riconosciuti, visti e queste sensazioni possono scatenarsi in soggetti fragili indipendentemente dalla modalità di lavoro adottata. Un senso di alienazione è possibile che lo provi anche chi non presenta storie di fragilità e in quest'ultimo caso si può rimediare con piccoli accorgimenti sia mediati dal web che stimoli relazionali da sviluppare offline.
Tutto questo, dal suo punto di vista, come influisce sulla salute mentale?
La salute e il benessere mentali possono essere compromessi da situazioni prolungate di stress e di un disagio non ascoltato. Rimanere immersi in una situazione che procura sofferenza, senso di inadeguatezza e imbarazzo con il tempo potrà dare luogo a risposte poco adattive se non disfunzionali. La tendenza a proteggersi non sempre aiuta a individuare soluzioni che fanno bene. Talvolta chi teme la solitudine, se non riesce ad esprimere il proprio bisogno di relazione, a chiedere e ricercare il contatto, paradossalmente, è più soggetto al rischio di isolarsi.
È fondamentale non trascurare nessun segnale di alienazione e ritiro sociale sia a livello personale che negli altri, per avere la possibilità di intervenire precocemente con azioni correttive da intendere come abitudini nutrienti ma anche, se serve, con il coinvolgimento di uno specialista.
Quali sfide manager e responsabili HR devono affrontare oggi per contrastare eventuali situazioni critiche vissute dagli smart worker?
La sfida è nella direzione dell'autenticità. È fondamentale ascoltare i colleghi e prepararsi adeguatamente per fornire loro delle risposte, in parte a carico dell'organizzazione e in parte per facilitare l'espressione dell'empowerment personale del dipendente. Ciò significa interessarsi in modo autentico all'altro, ascoltarlo, adoperarsi con soluzioni funzionali ai bisogni espressi attraverso un confronto trasparente in cui è possibile anche dire no, definire insieme obiettivi con tempi di realizzazione differenziati.
Il benessere non è per tutti rappresentato dalle stesse priorità, pertanto sono necessarie soluzioni su larga scala capaci di incontrare il favore dei più, ma anche risposte su misura di bisogno. Con la diffusione dello smart working spesso assistiamo a richieste anche in controtendenza, per tale ragione è importante provare ad ascoltare le esigenze di tutti che si inseriscono in storie e vissuti personali e familiari unici. Penso a chi accudisce un genitore anziano, chi intrattiene una relazione a distanza: sono solo alcuni esempi, ma ne possiamo portare altri per descrivere la varietà dei bisogni che manager e HR sono chiamati ad accogliere e gestire.