"Lo smart working ha rivoluzionato, specialmente negli ultimi anni, la vita di molte donne. Lavorare da casa, però, spesso in spazi piccoli dove ai doveri lavorativi si sommano quelli familiari, aumenta il livello di stress e richiede interventi di tutela della salute a garanzia del benessere psicofisico".
Lo ha detto il ministro della Salute, Orazio Schillaci, aprendo i lavori del convegno per la Giornata della salute delle Donne, organizzato dal dicastero con il sostegno di Komen Italia e Atena donna Onlus. Ora, se passa di nuovo il messaggio che smart working uguale stress siamo nei guai. E il nostro impegno di "evangelizzazione" di una nuova cultura del lavoro è sminuito. A quanto pare il ministro Schillaci si è confuso, voleva riferirsi al "telelavoro" o comunque quell'esperienza strano che molti hanno sofferto durante il lockdown: lavorare da casa.
Ci troviamo invece a ribadire che una cultura "smart" è molto di più. Dato che non vorrei essere noioso, prendo in prestito le parole scritte dal collega Antonio Laudazi, come da suo articolo per gli amici di FUL magazine:
<<Ripetiamolo insieme: smart working non è lavoro in remoto. Il lavoro in remoto esisteva ben prima della pandemia e riguarda semplicemente un tipo di lavoro che non richiede la nostra presenza in un luogo particolare (ad esempio la sede aziendale). Per capirsi, un poeta può scegliere di lavorare in remoto, cioè da dove vuole.
Bene. E se lavoro con il pc girando tutti i coworking della mia città? Magari è semplicemente un telelavoro, ovvero un lavoro svolto attraverso strumenti telematici. Ma puoi svolgere telelavoro anche dal tuo ufficio. Se usi un pc sei in telelavoro. Sai che scoperta...>>.
Il ministro Schillaci era in buona fede e noi lo correggiamo volentieri. Ma duole constatare che ancora bisogna ribadire cosa significa "smart", che è una cultura e non solo una modalità di esecuzione di una occupazione.