Non parliamo solo di smart working: l’uso degli “anglicismi” nel lessico del lavoro è un’abitudine o solo economia della parola? Lasciamo perdere computer che ormai è nel vocabolario da lustri, sappiamo di remote working in cima alla lista, ma che dire di fare un meeting, un briefing, una call o un break?
Si parla dell’influsso dei termini inglesi nel lessico italiano da tempo, ma a maggior ragione da quando sono aumentate esponenzialmente queste parole, ovvero negli ultimi anni. Complice l’era digitale, con i suoi mezzi e modalità comunicative rapide, i termini inglesi si prestano spesso a un tipo di discorso intorno a queste sfere. Al contempo il loro influsso ha però invaso tanti altri settori, da interrogarsi a proposito di questo utilizzo: necessario o superfluo?
Lungi dall’essere abolite, le parole migrate dal dizionario inglese concedono spesso comode scorciatoie. In altri casi seguono forse un trend senza che ce ne sia davvero bisogno. “Sono in call”, ad esempio, rende bene l’idea e non a caso è tra gli inglesismi più odiati dagli italiani. Seguono positioning, brainstorming, “loggarsi”, strat plan, coffee break, booking.
Per non parlare poi delle abbreviazioni, tutt’altro che apprezzate in Italia. C’è ad esempio una certa riluttanza nell’accettare “asap” (letteralmente as soon as possible) per indicare “il prima possibile”. Al contempo ci sono anglicismi che rendono chiara un’idea in modo rapido. Soprattutto in un’era e in una società digitale quale quella corrente. In Italia dunque emergono anche anglicismi apprezzati e utilizzati, quali weekend, ok, welfare, briefing, mission, o location. Per non parlare poi del mondo social, per il quale ormai l’utilizzo di anglicismi risulta più che utile essenziale: hashtag, tag, post, tweet, like, follower o emoticon.
Quindi è necessario utilizzarli - e in quale misura - o censurarli? Più realisticamente in larga misura sono ormai fisiologicamente parte del lessico italiano, in quanto l'uso e frequenza di queste parole sono aumentate esponenzialmente, forse in parte in modo imprevedibile. Da un parte gli anglicismi si pensa siano estremi, usati troppo e in alcuni contesti in modo superfluo; dall’altra si guarda al fenomeno come una naturale conseguenza del mix culturale contemporaneo e si apprezzano i termini inglesi perché adattabili a descrizioni rapide e concise.
Probabilmente in alcuni casi un “prestito inglese” può fare comodo, in dati contesti, i già citati social e nuove tecnologie. In altri può facilmente essere rispettata la nazione italiana e l’ampia terminologia fornita da questa, come si fa nella pubblica amministrazione.
In conclusione, tra l’eccedenza e la denuncia, banalmente gli inglesismi possono giocare un ruolo importante, di supporto alla lingua italiana, senza però sostituire questa quando non necessario.