Un manager illuminato come Adriano Olivetti – guarda caso sempre citato dai lavoratori ma mai dalle aziende – disse che un dirigente non avrebbe dovuto guadagnare più di 10 volte il salario degli operai. E infatti, negli anni Cinquanta, uno storico dirigente FIAT come Vittorio Valletta aveva un compenso di circa 12 volte quello dei suoi metalmeccanici. Sessant’anni dopo però, al Lingotto, Sergio Marchionne intascava una cifra che valeva oltre 400 volte lo stipendio di un operaio, come ricordano Domenico Affinito e Milena Gabanelli in un articolo sul Corriere della Sera dell'11 luglio.
Negli USA, il centro studi America Federation of Labour – peraltro finanziato dalle aziende – è arrivato alla conclusione che i CEO guadagnano troppo. Mediamente fino a 629 volte lo stipendio dei loro collaboratori, e le imprese con tali disparità sono da considerarsi un male per l’economia.
Data tale premessa numerica, veniamo al dibattito odierno nel nostro Paese sul salario minimo. Negli ultimi trent’anni l’Italia è l’unico Paese dell’OCSE dove il salario medio ha avuto valore negativo, infatti si calcola sia diminuito del 2,9%. A chi sostiene che non abbiamo bisogno d'introdurre il salario minimo, perché la maggior parte degli stipendi sono riconducibili alla contrattazione sindacale – e in assenza di contratto collettivo un giudice del lavoro a questa fa riferimento – viene da domandare come mai i sindacati dal 1992 a oggi hanno prodotto questo -2,9%? Non sarà che i media e la politica hanno fatto un’opera di demonizzazione costante degli scioperi indebolendo strategicamente l’attività sindacale?
L'ex-ministro del Lavoro Elsa Fornero sulle pagine de La Stampa del 12 luglio ha dichiarato che le politiche hanno favorito la sostituibilità dei lavoratori e non l'occupazione. Il giorno prima, il presidente dell'INPS Pasquale Tridico aveva illustrato il XXI Rapporto INPS alla Camera alla presenza di Sergio Mattarella. Lo scenario - ce ne accorgiamo ora? - è drammatico tra lavoro povero e pensioni da fame. In Italia ci sono 4,3 milioni di lavoratori che sono retribuiti meno di 9 euro lordi l'ora e 1 su 3 guadagna meno di mille euro al mese.
Chi sembra stare meglio sono i nostri cugini spagnoli. «In Spagna abbiamo cambiato paradigma, aumentando diritti e salari per tutti e sanando una disfunzione. L’altra cosa bella sa qual è? Che a livello economico funziona», dice in una recente intervista a La Repubblica la vicepresidente del governo e ministro del Lavoro Yolanda Díaz. Lei a febbraio 2022 ha fatto varare al governo di Sanchez una nuova riforma che prende di mira la precarietà. «Oggi il 48 per cento dei nuovi contratti è a tempo indeterminato, prima era al 10», ha spiegato la Díaz al giornalista Matteo Pucciarelli.
In Italia – come altrove, peraltro – le grandi aziende hanno aumentato i profitti, a volte hanno acquisito concorrenti, ma non hanno investito in capitale umano e aumentato i salari come facevano in passato. Quindi hanno distribuito dividendi maggiori agli azionisti, così oggi ci ritroviamo un Paese dove la finanziarizzazione dell’economia sta impilando la ricchezza verso l’alto.
Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco però sembra essere soddisfatto, «bene che i salari non aumentino con l’inflazione» ha detto. Ma questa è un’inflazione da profitti, perché scaturita dalla speculazione sulle materie prime, dato che anch’esse sono ormai trattate alla stregua di ogni prodotto finanziario. A Bankitalia non devono essersene accorti.
Forse, il modello di sviluppo dell’Italia consiste nell’impoverimento dei lavoratori, che nel breve periodo ingrassa i profitti delle grandi imprese, ma nel lungo periodo ci trasforma in un paese sottosviluppato.
Foto: il ministro del Lavoro Yolanda Díaz © Delegación del Gobierno en Castilla la Mancha