Francesca Coin, sociologa e docente all’Università di Venezia, ha ottenuto un buon riscontro di critica con il saggio di recente pubblicazione per Einaudi Le grandi dimissioni. In un articolo pubblicato esattamente un anno fa su L’Essenziale sottolineava come il sovraccarico delle mansioni, gli stipendi bassi, la scarsa autonomia e le difficoltà a conciliare valori personali e obiettivi aziendali avessero fatto crescere il numero di persone che rinunciavano volontariamente a un impiego. Come negli Stati Uniti, anche in Italia il fenomeno era stato notato nel 2021, con 485 mila persone dimesse volontariamente.
Interessante però è notare - con un pò di sorpresa - che il fenomeno parte da più lontano e non dal post-pandemia con la ricerca del nuovo senso del lavoro da parte delle persone.
La Coin nota una crescita tendenziale delle dimissioni volontarie cominciata già nel 2016, come dicono i dati dell’Osservatorio del precariato INPS sulle cessazioni dei rapporti di lavoro per dimissioni. L’unica eccezione è il 2020, ma eravamo appunto in pieno Covid. E il fatto che in Italia, una volta superata la fase più acuta della pandemia, le dimissioni volontarie siano aumentate meno che in altri paesi, come gli Stati Uniti o l’Australia, non deve rassicurare. In Italia, infatti, dice l’autrice, bisogna ricordare che il mercato occupazionale è molto meno dinamico.
Data questa caratteristica propria della nostra economia, “[...] è per questo che i dati sulle dimissioni devono allarmarci: perché il mezzo milione di lavoratrici e lavoratori che ha deciso di lasciare il lavoro nel secondo trimestre del 2021, lo ha fatto sapendo che lì fuori c’è una disoccupazione giovanile del 29,8 per cento e 2,3 milioni di disoccupati (dati al settembre 2021), oltre a poche alternative. È necessario, dunque, indagare le esperienze del lavoro contemporaneo per comprendere che cosa spinge migliaia di persone ad abbandonarlo in questo contesto”.
Dimissioni come spia della depressione.
Spesso le dimissioni sono lo sbocco di una condizione di depressione e la Coin cita un’altra autrice, Christina Maslach, che nel saggio Burnout: the cost of caring, rintraccia le cause del burnout in un mix esplosivo di: eccessivo carico di lavoro, cultura del lavoro tossica tesa a tagliare l’organico e a sovraccaricare il personale, scarsa autonomia dei collaboratori, mancanza di adeguato riconoscimento economico, clima vessatorio e mancanza di equità. Di fatto, il lavoro non è più fonte di emancipazione ma un sistema che conduce a una situazione di esaurimento mentale, tanto che le persone finiscono per sottrarsi al loro impiego per tutelare la loro salute.
C’è infine una questione mastodontica che riguarda i salari. L’Italia è l’unico paese d’Europa in cui il valore reale negli ultimi trent’anni è diminuito invece che aumentato. La fonte è autorevole perché lo dice l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). Ancora, per esempio nella mia regione, la Toscana, nonostante l’occupazione sia aumentata, dal 2006 i salari reali sono diminuiti del 5,4% (dati dell’Istituto regionale di statistica).
Tutto questo ha causato una generale disaffezione al proprio impiego e la faccenda non è da liquidare velocemente come hanno fatto alcuni nostri politici e imprenditori. In un Paese dove un lavoratore su tre guadagna meno di 1000 € al mese c’è un problema di contropartita, non di cultura del lavoro.