A fine primavera abbiamo registrato un ulteriore proroga per il ricorso allo smart working in forma semplificata, fino al 31 agosto 2022, e quindi si rimanda a settembre la consensualità della stipula di un accordo individuale tra azienda e collaboratore. Assolombarda ci fa sapere che a Milano 8 aziende su 10 hanno almeno un dipendente in modalità agile e in generale lo smart working si conferma strutturato.
Attendiamo l’autunno e la ripresa dei contagi per vedere quali variazioni ci saranno, nel frattempo registriamo con rammarico che la caratteristica dell’occupazione in Italia post-pandemia non sia tanto l’agilità quanto la precarietà.
Il nostro Paese ha avuto una ripresa importante del PIL - nel 2021 un rimbalzo fino al 6% e a luglio 2022 Eurostat dice 3,4% per l'anno in corso - ma non dobbiamo dimenticare che il nostro mercato del lavoro si porta ancora dietro le cicatrici della crisi economica del biennio 2011/12.
Oggi, dopo quasi 20 anni di rincorsa della flessibilità il risultato non è quello di avere un mercato più dinamico e che consente di passare da un impiego all’altro con più facilità. Anzi, da una parte abbiamo maggiore precarietà e dall’altra la mancanza di garanzia di capitale umano per le imprese.
Nell'Italia 2022 si combinano inflazione galoppante all'inazione del governo Draghi che ha lasciato i salari perdessero di valore reale. Per l’Istat ci sono 6,4 milioni di lavoratori che, a fine giugno, avevano il contratto scaduto: il 51,6% del totale. Solo nel privato i dipendenti senza contratto sono il 37,2%.
Il ricercatore Enzo Risso, in un recente articolo su Domani, ha riportato i dati di un’indagine condotta ogni mese da Ipsos su un campione di 800 soggetti di 27 Paesi diversi dal titolo What worries the world. A giugno 2022 gli italiani si confermano in vetta alla classifica sulla paura di perdere il proprio posto di lavoro con il 48%, dietro solo al Sudafrica e alla Spagna.
Ma quello che fa impressione è il divario con le altre economie avanzate europee: in Germania l’apprensione di perdere la propria occupazione riguarda solo il 10% del campione intervistato, in linea con il Regno Unito e la Francia rispettivamente al 12 e 14 %. D'altra parte, il 76% dei contratti creati nella fase di ripresa post-pandemia sono a tempo determinato e non stabile.
Si può trarre la conclusione che per il future of work non c’è solo voglia di remote e agile, ma anche più sicurezza. In questo gli italiani intervistati non hanno dubbi: il 54% chiede un forte riduzione dei contratti a tempo determinato e il 70% di essere disposto ad avere meno sussidi per una maggiore stabilità a lungo termine. Ancora, il 46% chiede che sia definito uno stipendio minimo, con la percentuale che sale al 49% tra gli Under 30.
Le ricette neo-liberiste non hanno fallito solamente nella percezione delle persone ma anche alla prova dei fatti, e risulta strano che ancora da noi trovino estimatori ricette che chiedono nuova flessibilità. Se vogliamo guardare alle cause della vera e propria stagnazione dell’economia italiana - unica tra i paesi sviluppati – è illuminante leggere il report di un recente studio del Fondo Monetario Internazionale, che guarda più a cause endogene, in particolare alle sanguinose riforme del mercato del lavoro:
“[…] i lavori part-time riducono le ore lavorate nella settimana, mentre i contratti a tempo determinato riducono il numero di settimane lavorate durante l’anno e ne aumentano la volatilità. Troviamo deboli prove che i contratti a tempo determinato rappresentino un “trampolino di lancio” per il lavoro a tempo indeterminato. Infine, ci sono prove evidenti che le riforme del mercato del lavoro hanno contribuito al rallentamento della produttività del lavoro in Italia ritardando l'accumulazione di capitale umano, sotto forma di esperienza generale e specifica dell'impresa.”
Quando qualcuno si chiede perché l’Italia ha la più bassa produttività tra i paesi a economia avanzata, bisognerebbe andare a ricercare qui le cause – anziché giornali e imprenditori ripetere a pappagallo insulse polemiche - e ricordarci che purtroppo sono stati proprio i governi “progressisti” a sfondare la porta per queste riforme.