Ne avevamo parlato in un articolo anche sul nostro magazine lo scorso anno, ma adesso il quotidiano La Repubblica ha realizzato un’interessante inchiesta - a firma di Flavia Cappadocia e Chiara Nardinocchi - sul fenomeno delle Grandi dimissioni in Italia con i dati del Ministero del Lavoro. Dall’inizio della pandemia il numero di under 40 che hanno deciso di licenziarsi è aumentato del 26%.
La great resignation è comunque trasversale a tutte le fasce d’età e racconta di un mondo di lavoratori alla ricerca di un maggior equilibrio tra vita privata e occupazione. Lo scenario che emerge – con il supporto dei numeri – è quello di un impianto dell’impiego “tradizionale” fortemente gerarchizzato e basato su performance e produttività che ha iniziato a scricchiolare. Oggi, dopo due anni di pandemia, è in atto una trasformazione che scuote nelle fondamenta le scelte occupazionali.
Andando a vedere le serie storiche degli ultimi cinque anni dei dati forniti dal Ministero, nel I trimestre del 2017 il totale delle dimissioni volontarie era stato pari a 307.768 persone di cui 178.486 uomini e 129.282 donne. I numeri sono piuttosto stabili negli anni ma crollano nel II trimestre del 2020 a 261.641 – pari a 149.859 uomini e 111.782 donne - ovvero in concomitanza della prima ondata della pandemia sanitaria e del lockdown. Ma già nel III trimestre del 2020, cioè l’estate successiva alla fine del confinamento, le dimissioni totali salgono a 413.676 unità complessive.
Un anno dopo, estate 2021 o II trimestre che dir si voglia, è registrato il boom delle persone che hanno lasciato il lavoro: 484.545 unità per 293.355 uomini e 191.190 donne. Con i soli numeri “nudi e crudi” sembra un controsenso la fuga dal lavoro, dato che siamo in un periodo di incertezza economica dopo il disastro lasciato dalla pandemia. Ma il fenomeno è ancora più complesso se prendiamo per riferimento i giovani.
La seconda edizione della ricerca realizzata da Mindwork e BVA Doxa sul benessere psicologico dei lavoratori italiani ci dice che il 49% dei giovani under 34 si è dimesso almeno una volta per tutelare la sua salute mentale. L’85% degli intervistati ritiene che il benessere psicologico è correlato al lavoro, il 50% ha lamentato ansia e insonnia per motivi legati all’impiego e ben l’80% ha sperimentato calo dell’efficienza e straniamento rispetto alla propria mansione.
La ricerca si può scaricare a questo link.
Ancora, Eures - la rete di cooperazione europea dei servizi per l'impiego - lo scorso anno aveva realizzato un’indagine che evidenziava come nel curriculum di oltre il 50% degli under 35 ci sono contratti precari e basse retribuzioni. A cinque anni dal completamento del ciclo di studi solo il 37% del campione intervistato ha dichiarato di avere un contratto stabile. Quindi la scelta tra il lavoro e la propria salute mentale diventa più comprensibile e il fenomeno delle grandi dimissioni – osservato prima negli USA e poi in Europa – è meno strano.
Molte persone, giovani e meno giovani, hanno deciso di lasciare il proprio lavoro a causa di una cultura tossica del lavoro che, per citare un articolo apparso su The Vision, << […] sulla scia del fenomeno capitalista riduce la dimensione individuale a quella di consumatori e produttori>>. Inoltre, sperimentando lo smart working, le nuove generazioni hanno trovato nel modello ibrido una risposta all’esigenza del benessere psicologico. Meno legati a vincoli economici (mutuo, famiglia da mantenere…) ecco che le dimissioni sono una soluzione a una concezione totalizzante del lavoro che per i padri è stata accettabile perché non c’era alternativa.
Lo smart working non è solo un benefit, ma fattore di adeguato equilibrio tra la vita privata e la carriera. Le aziende che ignorano per i loro talenti tutti quegli aspetti che sembrano esulare dal contesto lavorativo potrebbero incappare in sorprese.