A giudicare dalla cronaca di questi giorni lo smart working batte in ritirata. E pure le Grandi dimissioni non sono state il fenomeno del 2021 - da presa di coscienza post-pandemia – ma si sono confermate nel 2022.
Andiamo con ordine, giovedì 26 gennaio su Il Sole 24Ore esce un articolo a firma Giorgio Pogliotti dal titolo Smart worker poco più di un dipendente su dieci, ma il bacino potenziale è quattro dove si cita l’analisi dell’Istituto Nazionale per le Politiche Pubbliche (Inapp) che evidenzia come la diffusione del lavoro agile vada rallentando rispetto al passato. Le PMI sono le realtà con meno prestazioni remotizzabili, con maggiori posizioni in ruoli esecutivi e differente capacità manageriale ad adottare modelli organizzativi flessibili. In particolare nelle microimprese, l’84% delle mansioni non possono essere eseguite da remoto.
Venerdì 27 gennaio è stata la volta de L’Avvenire, con un articolo a firma Pietro Saccò dal titolo Lo smart working è già in stallo. Anche il quotidiano della CEI è tornato sull’analisi dell’Inapp per rimarcare che se sembrava scontato che lo smart working sarebbe rimasto tra le eredità della pandemia, in realtà con la fine dell’emergenza l’adozione del lavoro agile in Italia si è fermata: solo il 13,8% dei dipendenti svolge da remoto una parte della propria attività. La modalità agile è diventata una consuetudine solo per meno di 2 milioni di lavoratori. Sono soprattutto laureati, dipendenti di grandi imprese, occupati nei servizi e nella Pubblica Amministrazione. Il livello, se fosse necessario ribadirlo, è più basso rispetto alla media europea.
«Non emerge quel cambio di paradigma lavorativo che la pandemia sembrava aver innescato, almeno nel nostro Paese – ha commentato i dati Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp – come se durante la pandemia avessimo vissuto in “una grande bolla” e il ritorno alla normalità stesse vanificando le potenzialità del lavoro a distanza, a causa di una ridotta capacità di introdurre radicali innovazioni nell’organizzazione del lavoro».
La conclusione è che le aziende, e più precisamente i loro manager, devono imparare a innovare l’organizzazione e le modalità di lavoro per sbloccare il potenziale dello smart working. Farlo conviene, perché offrire la possibilità di lavorare anche a distanza aumenta la produttività e aiuta il reclutamento dei lavoratori più ambiti: i giovani, sempre meno e quindi come le risorse scarse particolarmente preziosi.
E qui arriviamo ad un altro rapporto, citato dall’articolo su La Stampa a firma Giuliano Balestrieri dal titolo Boom di dimissioni: 1,7 milioni in 9 mesi, gli italiani a caccia del lavoro flessibile. Stavolta è il Politecnico di Milano a fornire dei numeri interessanti. Il turnover è aumentato per il 73% delle aziende e il 45% degli occupati intervistati si è dichiarato disposto a cambiare impiego nell’arco dei prossimi 18 mesi o l’ha fatto nell’ultimo anno. Il picco, ovviamente è tra i più giovani.
Insomma, nell’era del new normal avrebbe dovuto essere lo smart working il trend “qui per restare”, invece sono le Grandi dimissioni il fenomeno che si è consolidato. Cresciuto peraltro proprio nella fascia d’età 18 – 30 anni. Se nelle aziende fino a 250 dipendenti si può sviluppare benessere lavorativo, di nuovo sembra il nanismo delle imprese italiane il rovescio della medaglia. Il nostro tessuto produttivo è fatto al 95% da microimprese dove c’è difficoltà a sviluppare forme di welfare integrativo, percorsi premianti e non si pratica la contrattazione aziendale.
Quello che pare mancare, ma che le persone ricercano, sono leve motivazionali specifiche, quali ad esempio poter sviluppare propri progetti all’interno dell’azienda (non siamo in California, ma Steve Wozniak sviluppò il primo prototipo di PC Apple perché l’azienda di cui era dipendente, Hewlett Packard, pur non interessata lo supportò nel provare a commercializzarlo…) oppure formazione specifica. Siamo in un momento storico particolare - tra una pandemia lasciata alle spalle nei suoi effetti peggiori e una guerra in Ucraina che è un disastro di dimensioni incredibili per il nostro continente – ma l’economia italiana nel 2022 ha dato segno di vitalità.
E le aziende? Lo Stato non impone modalità organizzative specifiche ad imprese private (né al momento esiste un diritto del lavoratore al lavoro agile) ma forse un po’ dovrebbe farlo se i manager non sanno rendere strutturale un trend virtuoso?