Tra i video che circolano in rete, fatti dai cittadini di Wuhan che testimoniano la vita da reclusi obbligati per contenere l’epidemia, mi ha colpito quello dell’atleta che si allena per la maratona correndo per la casa. Un giro tondo come fanno i bambini. I cinesi provano a reinventarsi una normalità e, più concretamente, la prima economia mondiale sta sperimentando anche uno smart working di massa. “Coronavirus Forces World’s Largest Work-From-Home Experiment” ha titolato Bloomberg.
Prima hanno chiuso fabbriche di multinazionali importanti come Toyota e Nike, poi le catene di negozi di brand famosi tipo Starbucks. Ma anche per centinaia di aziende locali si è imposta la chiusura, in alcuni casi forzata, in altri semplicemente i dipendenti hanno smesso di andare in ufficio. Il Coronavirus ha reso il lavoro da remoto una necessità, non un privilegio. Come ha dichiarato Alvin Foo, managing director dell’agenzia Reprise Digital di Shanghai, “è stata l’occasione per testare il lavoro da remoto su vasta scala”. I brainstorming adesso li fanno su WeChat, per intenderci.
Scenario da smart working forzato?
Per quanto la Cina sia un’economia complessa da comparare su standard occidentali in dati, il magazine della finanza americana cita uno studio della Stanford University sullo smart working. Anche nel colosso asiatico sono stati evidenziati aumenti di produttività nei casi presi in considerazione dal 2015. Ovviamente, nonostante questo paese abbia fatto un salto da gigante in termine di tecnologia, è chiaro che oggi si sono ritrovati all’improvviso in una situazione senza “piano B”.
E in Italia cosa succederebbe se si diffondesse il contagio e fosse imposto l’isolamento della popolazione di un’area? Sembra occorra più di un anno per avere un vaccino contro il virus e, pur con le misure dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’infezione sta facendo il giro del mondo. La virologa Ilaria Capua, intervenuta a una nota trasmissione televisiva, ha già invitato le aziende a prendere le misure in caso di dover tenere a casa i dipendenti: organizzatevi con il telelavoro, in sostanza. Quindi, nessun allarmismo, ma dobbiamo sfruttare il vantaggio che ci ha dato il tempo per preparare il nostro “piano B”.
Un virus tutto italiano
Ma qui i nodi vengono al pettine, come sostiene il sociologo del lavoro Domenico De Masi, sostenitore dello smart working da tempi non sospetti, intervenuto in questi giorni sull’ Huffington Post: “I vantaggi del lavorare da casa sono inquantificabili, ma in Italia c’è una resistenza patologica al cambiamento”. Per il professore il 60 – 70% degli impieghi potrebbe essere svolto in questa modalità. Ci sarebbero ricadute positive di benessere per il lavoratore che non deve perdere tempo e sostenere costi a spostarsi verso l’ufficio, per l’ambiente con minore traffico e per le aziende stesse.
Nonostante lo studio condotto dal Politecnico di Milano evidenzia nel 2019 in 570mila “lavoratori agili” in Italia, con una crescita del 20% rispetto al 2018, il nostro Paese è ancora sotto la media europea. Indipendentemente dall’epidemia del Coronavirus, sarebbe opportuno che le nostre organizzazioni private e pubbliche applicassero con coraggio lo smart working e non in forme parziali o sperimentali.
In Italia culturalmente il management è molto abituato al controllo dei dipendenti. Inoltre, il cambiamento è spesso imposto da cause esterne e non favorito dall’evidenza di un reale miglioramento. Da troppi anni accettiamo di essere l’economia con il più basso tasso di produttività d’Europa e da questa malattia quando vogliamo guarire?