C’era una volta il tanto auspicato posto fisso, quel ruolo di cui un novello lavoratore si rivestiva quando ancora aveva problemi di acne, e si portava dietro fino alla pensione. Uno scenario quasi terrificante per coloro che entrano adesso nel mondo del lavoro, ma che sembra ancora resistere nonostante gli scossoni sociali degli ultimi anni.
Oggi infatti si assiste sempre più spesso al fenomeno del Job Hopping che significa letteralmente saltare da un lavoro all’altro. E se negli USA e nei Paesi dell’Europa settentrionale, specialmente nei primi anni di carriera, è consueto, in Italia il vecchio schema persiste. Le motivazioni dietro questa resistenza sono molte, dalla disoccupazione giovanile che, secondo i dati ISTAT di aprile 2023, supera il 20% (fattore che limita chi è più incline al cambiamento frequente) a una rigidità del mercato del lavoro, che non solo frena la voglia e la necessità dei giovani di sperimentare e mettersi in gioco, ma soprattutto le aziende che non possono permettersi di espandere e contrarre il proprio organico a seconda dei momenti di cui l’economia vive.
È interessante osservare il fenomeno del Job Hopping proprio in una chiave diversa da quella molto spessa messa in rilievo, e cioè sugli effetti che ha sulla credibilità professionale del singolo individuo. È necessario capire i tempi in cui stiamo vivendo e, in base a determinate esigenze, apportare i necessari cambiamenti politici per spingere l’industria italiana a livelli più competitivi. Ecco quindi che flessibilità e dinamismo diventano sinonimi di competitività in un panorama globale. Quindi l’Italia è destinata a sopperire? Non proprio.
Ci sono dei settori che offrono una maggior elasticità e che danno una visione del professionista del futuro: quello digitale, per esempio, come attesta il il Sistema Informativo Excelsior. L’Italia, tra l’altro, ha il primato europeo per soldi investiti nella transazione digitale, e questo fa sperare in un progressivo avvicinarsi a un’auspicata flessibilità del lavoro.
Accettato anche in Italia? Si ma solo in alcuni settori.
Nel digitale il Job Hopping funziona anche in Italia secondo i dati di Anpal Servizi, ed è un fenomeno che si sta diffondendo nonostante alcune resistenze culturali. Questo settore esula infatti da quelle dinamiche incancrenite del mercato del lavoro italiano, proponendo con decisione un moto innovativo a tratti incontenibile e al passo con gli altri Paesi sviluppati. Ancora una volta, dopo la pandemia, la rivoluzione del lavoro è guidata dai giovani e giovanissimi, per la precisione dalla GenZ, che sta progressivamente abbandonando la separazione tra valori personali e professione.
Quello a cui stiamo assistendo anche attraverso il Job Hopping, quindi, non è semplicemente l’adeguarsi alle tendenze provenienti dagli StatI Uniti, come per molte altre situazioni. È piuttosto il sintomo di un’evoluzione della specie che non si accontenta di “portare a casa lo stipendio”, trascurando gli effetti del proprio lavoro sul benessere proprio e dell’ambiente circostante.
Infatti, un recente studio di IBM dimostra che, anche se un aumento di stipendio è pur sempre gradito e in parte obiettivo del Job Hopping, la quasi totalità dei professionisti cerca maggiore flessibilità negli orari, l’indipendenza dai luoghi fisici con il remote working, e la felicità data da una maggiore armonia tra vita privata e professionale. A questo proposito abbiamo lanciato anche noi un sondaggio su LinkedIn, in collaborazione con il nostro partner Millionaire. I risultati dimostrano che il job hopping non è poi una pratica così remota, anzi.
Su un campione di 3.826 votanti, più del 60% ha dichiarato di aver cambiato azienda almeno una volta negli ultimi 5 anni. Di questi, il 18% afferma di averlo fatto più di tre volte. Alla domanda “Quante volte hai cambiato lavoro negli ultimi 5 anni?”, infatti, solo il 38% ha risposto di non averlo mai fatto. Anche questi numeri, quindi, non sono troppo lontani dagli standard dei job hoppers.