Vi è mai capitato di leggere degli articoli che s’intitolavano “10 trucchi per fregare il capo da remoto”? Poi magari avete scosso la testa ridendo, e considerando questi consigli assurdi. Pare che, però, qualcuno li abbia messi in pratica. Ultimamente, infatti, le cronache hanno parlato di una serie di escamotage dei lavoratori per evitare i luoghi concordati con le imprese per lo smart working, sfociati a volte nel comico.
E tra chi rispetta l’orario lavorativo con annessi i luoghi stabiliti e chi fugge dalle regole, c’è una sostanziale differenza: la creatività. E pare che durante la stagione estiva la creatività sia aumentata, da quanto ci hanno mostrato le piattaforme social: c’è chi ha montato schermi in riva al mare, chi ha costruito veri e propri set, chi si è affidato alle tecnologie più avanzate per celare indizi - visivi o sonori che siano - del reale “luogo lavorativo”.
TikTok e smart worker in fuga che danno consigli furbi.
È nato prima TikTok o lo smart worker influencer? È stata soprattutto la “piattaforma più in voga tra i creators” a mostrare video di collaboratori in spiaggia o di altri impegnati a dispensare consigli utili su una fuga in località esotiche per svolgere le proprie mansioni. Anche se, forse, scoprirsi su un social con milioni di visualizzazioni non risulta il miglior metodo per non essere scoperti. Un paradosso che neppure Woody Allen arriverebbe a inserire in un suo film!
Il caso della lavoratrice ad Ibiza, la quale, secondo gli accordi aziendali, avrebbe dovuto essere a Ginevra è apologia dello smart working, dove stavolta però “smart” andrebbe tradotto come furbo! La protagonista è sparita all’estero subito dopo aver appreso la portata e la visibilità dei suoi contenuti, i quali comprendevano una lista di accorgimenti utili appunto per fingere di essere nel luogo di lavoro prestabilito. Ovvero, un’estrema attenzione alla preparazione dello sfondo - che ha visto coinvolto anche il bagnino - fino ad arrivare a particolari auricolari per cancellare i suoni incriminatori della spiaggia.
Seguono altri esempi, non meno creativi, tra cui il caso del lavoratore teoricamente nella grigia Birmingham ma, nella realtà “sgamato” a Chiangmai, in Thailandia. Insomma, non proprio nelle Midland della vecchia Britannia! In questo caso la vita del collaboratore in fuga è ben più complicata della modalità agile “semplicemente al mare” come farebbero a Livorno: fuso orario e condizioni climatiche così esotiche non facilitano la messa in scena.
Anche se in una canzone Bobo Rondelli s’immaginava di vedere le Hawaii oltre la periferia livornese, qui è tutt’altra storia! Tuttavia, per il lavoratore espatriato sono intervenuti una serie di trucchi utili: il cambio outfit e il controllo delle condizioni climatiche inglesi a rendere la falsa localizzazione credibile, per quanto complicata, a dire dello stesso protagonista.
Quindi a chiusura dell’estate viene spontaneo chiedersi: data la fatica della finzione, vale la pena restare in spiaggia durante le ore lavorative? E soprattutto, casi come questi non compromettono l’etica più pura dello smart working?
Come rispondere al fenomeno dei lavoratori spariti all’estero?
Se si volesse sopperire all’etica in alcuni casi assente con la normativa, potrebbe essere d’aiuto affidarsi agli svariati metodi di misurazione della performance, tutti sanno che esistono i KPI - Key Performance Indicator, tra i diversi criteri utilizzati dalle aziende per calcolare la produttività dei propri collaboratori, ma non è questo il punto.
C'è però un passaggio prima, come spesso ha sottolineato il nostro magazine: quello della responsabilità. La misurazione delle KPI serve per avere traccia nei processi produttivi e conferma delle attività svolte, ma un sistema di tracciamento - anche per vedere e valutare la produttività del singolo - è poco utile senza l’engagement delle risorse.
Altrimenti, nella sostanza, torneremo al modello del “controllo” di cui proprio non sentiamo il bisogno .