Che ruolo avrà il lavoro nelle nostre vite? Stiamo forse cambiando i nostri obiettivi? Lo smart working è solo un mezzo o è (già) il fine di una nuova grande consapevolezza?
Negli ultimi tempi, complice sicuramente anche la pandemia da Covid-19, abbiamo assistito ad una riorganizzazione assoluta del nostro modo di vivere e del nostro modo di lavorare, cambiando radicalmente le nostre abitudini, adattandoci alla situazione straordinaria non senza difficoltà. Adesso, cosa resta?
Resta un modello che ha le sembianze di un prototipo non ben definito. Una sorta di vetrina con su scritto "rompere qui in caso di emergenza", che in molti sono già pronti a riporre nello scaffale e tornare, senza particolari problemi, al 2019, quando il virus non era neanche stato immaginato dalla più fantasiosa delle menti. Ma è la strada giusta da percorrere? Analizziamo la situazione, attualizzandola ad oggi, dopo due anni faticosi che hanno messo a dura prova la nostra resistenza.
Abbiamo assistito, dagli Stati Uniti d’America al Vecchio Continente, al fenomeno che i sociologi e gli esperti hanno chiamato “Great resignation”, che tradotto nella lingua di Manzoni è " Le Grandi Dimissioni". Fenomeno per il quale molti lavoratori, prevalentemente giovani, hanno lasciato il proprio impiego alla ricerca di qualcosa di migliore e, soprattutto, di un nuovo equilibrio tra la loro vita e il loro lavoro. Una scelta evidentemente difficile da comprendere per chi ha fatto della produttività e dell’efficienza ad ogni costo il suo unico obiettivo di vita.
Non solo, secondo una recente indagine di INAPP, circa un lavoratore su cinque sarebbe disposto a ridursi lo stipendio pur di continuare a lavorare in smart working e avere maggiore flessibilità per un maggior equilibrio tra vita privata e lavoro.
Dopo questa disamina, è giusto tornare alla riflessione iniziale: stiamo forse cambiando i nostri obiettivi? La risposta parrebbe essere affermativa, considerando che la flessibilità (quella vera, non quella spesso riportata sugli annunci di lavoro che poi si rivela essere mera immagine purificatrice per chi offre quei lavori) è la parola chiave del nuovo modello sociale che si sta costruendo intorno all'individuo.
Se continuiamo a guardare ad oggi, un’altra cosa a cui stiamo tristemente assistendo è una demonizzazione dello smart working come rifugio più comodo per i nullafacenti, il ministro Brunetta non ha perso l’occasione per rincarare la dose anche in questi giorni. Perché nel mondo c’è chi sta attuando lo smart working e la flessibilità in maniera stabile e non più straordinaria e nel nostro Bel Paese siamo pronti a compiere l’ennesimo passo indietro? Si tratta di un problema di natura sociologica e culturale. Appoggiandoci ad un concetto espresso dal sociologo Michel Crozier, stiamo assistendo ad una "resistenza al cambiamento", fenomeno per il quale, chi ostacola il cambiamento lo fa perché trae vantaggi dal vecchio sistema.
Ma davvero il nostro futuro è quello di continuare a raggiungere il posto di lavoro a tutti i costi, restare otto ore - lesinare “si fa mezza giornata” - dentro quattro mura quando la prestazione può essere svolta da remoto? Davvero questo schema Novecentesco è ancora un punto fondamentale per il management?
Allo stesso modo, perché si parla sempre con sospetto di coworking e di spazi condivisi e di prossimità, lontani dal caos delle metropoli e delle zone industriali?
Immaginare un modello di lavoro flessibile e nuovo non è poi così utopistico, basta guardare al recente fenomeno del South Working per farsi un'idea diversa. Invero, i benefici possono essere tanti, non si può elencarli tutti in poche parole.
Lo smart working può e deve essere il perno centrale di questa evoluzione, perché, se la si vuole mettere sul filosofico, la vita è una sola. Il lavoro è una parte importante di essa ma non è tutto. Fuori c’è un’altra vita e coniugare il lavoro con la propria dimensione nel mondo è possibile. Basta solo accogliere l’evoluzione come condizione dell’essere umano.
Articolo di Manuel Micolucci