Sembra quasi un ritornello, a volte anche noioso, ma nel bene o nel male dobbiamo ancora citare la recente pandemia come spartiacque per qualcosa, se non proprio per qualsiasi cosa soggetta al cambiamento. E il mondo del lavoro, a tutti i livelli, è stato pesantemente scosso da questo recente evento. E così anche il comparto pubblico sembra in movimento verso un aggiornamento generazionale atteso da tanto. Forse da fin troppo tempo.
Ricordiamo che, secondo gli ultimi dati raccolti da INPS, stiamo parlando di circa 4 milioni di addetti divisi in diverse sezioni (scuola, sanità, enti locali territoriali, ecc.) chiamati a gestire la “cosa pubblica” in una società che cambia velocemente e che desidera veder pienamente realizzate riforme attese da anni, per esempio semplificazione, trasparenza, digitalizzazione/dematerializzazione e sburocratizzazione. Riforme necessarie per rendere i cittadini meno sudditi e meno vessati.
Nuovi fondi per nuove sfide.
I motivi del blocco del turnover in questo delicato settore sono da ricercarsi principalmente nel contenimento della spesa, ma sono anche frutto di approcci ideologici e politici che hanno attraversato un po’ tutti i partiti che si sono alternati al governo del paese in questi ultimi 20 anni. Il sito di fact-checking politico Pagella Politica, tra l’altro, proprio un anno prima della pandemia, aveva annunciato come il blocco delle assunzioni avesse di fatto immobilizzato la Pubblica Amministrazione italiana.
Successivamente, a partire dagli ultimi 5-6 anni, grazie soprattutto ai fondi del PNRR e dalla necessità di gestire gli stessi da un punto di vista tecnico, amministrativo e contabile, la Pubblica Amministrazione (PA) italiana ha bandito vari concorsi, anche per colmare il vuoto che i pensionamenti avevano creato. Ma come sta andando questa partita? I giovani si stanno riversando in massa nel pubblico impiego per cambiarlo e ammodernarlo?
La risposta è no! Da più parti erano giunti segnali sconcertanti già nel 2021, proseguiti poi per tutto il 2022, che hanno fatto notare le prime crepe su tutto l’impianto progettato per reclutare personale nella PA. Infatti, nonostante i numeri prevedessero una prima chiamata per 800 esperti da piazzare nei ministeri per gestire il PNRR e un’altra da 2.800 unità per aiutare specificatamente le amministrazioni del sud a spendere i soldi dei Fondi di Coesione Europei (il famoso “concorsone Brunetta”), l’esito è stato deludente perché alla prova si è presentato solo il 65% dei candidati.
Il 2023, con il PNRR a pieno regime, non ha migliorato le cose, e molti sono i segnali negativi che provengono non solo dalle amministrazioni centrali, ma anche e soprattutto dalle piccole realtà locali come i comuni e piccole realtà.
Ma quali sono i motivi che portano i giovani a disertare questi concorsi?
Prima di tutto le procedure concorsuali ancora molto farraginose e lunghe. Il portale in stile Linkedin voluto da Brunetta stenta a decollare ed è ancora poco conosciuto. Poi, a mio avviso, anche queste caratteristiche causano la disaffezione dei giovani:
- la mancanza di prospettive rispetto alla carriera, il cui accesso è sempre poco chiaro, scarsamente meritocratico e ancora troppo vincolato ai voleri e ai piaceri dei politici;
- un generale atteggiamento negativo nei confronti della “cosa pubblica”, del bene comune e del concetto di ‘servizio’ per la collettività, figlio anche di una cultura generale che non ha mai considerato il ‘pubblico’ come valore, ma molto spesso come disvalore a causa dell’inefficienza, dello spreco e della vessazione;
- lo stipendio che, per lo meno per i livelli esecutivi e per i quadri intermedi, è ancora modesto e non riesce a competere con quelli erogati dal privato;
- contratti di comparto ancora basati su funzioni e declaratorie descrittive dei ruoli legati quasi esclusivamente alle mansioni. Manca l’aspetto progettuale e programmatico tipico del lavoro moderno, che prevederebbe collaborazione in team liquidi e multidisciplinarietà nonché scambio di ruoli fra i componenti;
- molti altri motivi ancora, legati soprattutto al benessere organizzativo, alla felicità, alla soddisfazione, al riconoscimento del merito e al bilanciamento vita/lavoro.
Un esperto di leadership pubblica come il prof. Arthur C. Brooks, sostiene da tempo che la felicità è la combinazione di tre elementi: il piacere, la soddisfazione e lo scopo. Nella PA italiana (dove è tuttora difficile aspirare alla carriera), invece, diventa quasi impossibile dare un significato a ciò che si fa quotidianamente e perciò raramente si riesce a godere della giusta soddisfazione.
Sfugge infatti spesso lo scopo, a causa del dover operare per adempimento e non per convinzione, per il volere di norme astruse e/o degli obblighi più incomprensibili. E dunque, laddove viene sempre meno valorizzata la professionalità e svilito il significato ultimo di ciò che si fa, è assai difficile essere felici. Meglio allora guardare verso altre direzioni.