Spotify chiude l’anno come l’aveva cominciato: con i licenziamenti. E sono tanti, ben il 17% della forza lavoro, pari a circa 1.500 unità. A gennaio l'annuncio della riduzione del 6% del personale - dopo essere arrivato a impiegare quasi 10mila lavoratori - era arrivato dopo un lungo elenco di tagli per le Big Tech. In testa Twitter, poi Meta, Amazon, Microsoft e anche Google. Per gli analisti il problema della riduzione del margine di profitto e/o l'aumento esorbitante dei costi è dipeso dalle campagne di assunzioni troppo ambiziose durante gli anni più acuti della pandemia. Poi le persone hanno riscoperto la socialità e lasciato un pò di vita online.
Pure il progressivo impiego dell'intelligenza artificiale ha senz’altro spinto molte aziende a cambiare strategia. Secondo il CEO della piattaforma svedese di streaming, Daniel Ek
"[…] per allineare Spotify ai nostri obiettivi futuri e assicurarci la dimensione giusta per le sfide che abbiamo davanti, ho preso la difficile decisione di ridurre il personale della società. Si tratta di una decisione "difficile ma di un passo cruciale per creare una più forte ed efficiente Spotify nel futuro".
Cambiano i rapporti di forza tra produzione e servizi
Forse è venuto il momento di sfatare il "mito" dell’economia digitale e fare una critica seria al fenomeno delle Big Tech. Sorge un dubbio lecito sulla solidità di un sistema dove la diminuzione dei “consumi digitali” si traduce in licenziamenti di massa. L’era digitale ha cambiato i “rapporti di forza” tra produzione e servizi e ce ne possiamo rendere conto con un semplice raffronto con quelli che erano i pilastri dell’economia tradizionale 25 anni fa: banche e industria. Le 5 principali multinazionali Big Tech impiegano la metà dei lavoratori che erano impiegati nelle 5 principali realtà dell’era “analogica”.
Nell’ultimo anno hanno licenziato 120mila persone, ma per un momento hanno creato grande valore per i loro stakeholders…