Un paio di giorni fa ho mandato un messaggio al collega Gianluca Panella, fotografo e reporter, per invitarlo a un evento letterario a Firenze. Gianluca ha declinato giustificandosi che era appena arrivato in Giordania e stava per entrare in Israele, alla luce dei recenti fatti di crisi in Medio Oriente. Il lavoro di Gianluca è quello che permette a tutti noi di avere uno sguardo sul mondo, in particolare dove è vietato l'accesso ai più, il che mi ha spinto a una domanda: come si lavora in scenari di crisi?
Ovviamente con la metodologia più “smart” possibile - non potrebbe essere altrimenti, perché ne va dell'incolumità - che si tratti di Ucraina, Africa o Palestina. E poi c’è il racconto di un mondo sempre più in ebollizione come le varie crisi internazionali dimostrano. Il visual journalism, evoluzione di un fotogiornalismo investito dalla tecnologia, è un grande contenitore di contaminazione dei linguaggi. Fotografia, testi, video, grafica, voce, tutto è utile e necessario per rendere le storie fruibili da un pubblico che mai come oggi si trova con una sovraesposizione di notizie.
Ho scoperto due libri di recente pubblicazione che provano a spiegare come si svolge questo lavoro, di cui tutti noi beneficiamo per informarci, ignorando spesso cosa comporta per il visual journalist operare in scenari di crisi.
Da Kiev a Gaza, passando per Beirut e Derna.
Visual journalism. Conflitti. Identità. Impegno, di Enrico Ratto, edito da Emuse, raccoglie una serie di interviste a chi ha scelto questo mestiere, coinvolto in prima persona per raccontare – attraverso le immagini – il mondo in cui viviamo: i conflitti, la ricerca scientifica, le migrazioni, l’affermazione dell’identità. Diciassette fotografi - tra loro Gabriele Micalizzi, Alfredo Bosco, Lorenzo Tugnoli o Fabio Bucciarelli - per la prima volta, discutono e si pongono domande sul loro metodo di lavoro, sul sistema dei media e sulla posizione che hanno scelto di prendere di fronte agli eventi che guidano la nostra epoca.
Lorenzo Tugnoli - vincitore del Premio Pulitzer per la fotografia nel 2019, primo italiano ad essere insignito del prestigioso riconoscimento per il suo reportage sulla guerra in Yemen - ha dichiarato che, nonostante la tecnologia permetta di inviare il materiale in tempo reale alle agenzie e testate giornalistiche o l’uso di App che informano su movimenti militari e luoghi soggetti a bombardamenti - il lavoro del reporter si svolge ancora essenzialmente come negli anni Sessanta: imparando a muoversi sul territorio.
Sullo stesso canovaccio Cronisti in guerra, di Alberto Ferrigolo e Sofia Gadici, edito da All Around, dove troviamo ancora delle testimonianze. Giornalisti e reporter del calibro, tra gli altri, di Fausto Biloslavo, Daniele Piervincenzi, Nello Scavo, Francesco Semprini, Francesca Mannocchi, Giammarco Sicuro e ancora Alfredo Bosco.
Proprio a Bosco - che ho avuto modo di intervistare lo scorso anno durante il suo lavoro di documentazione della guerra in Ucraina - chiesi di aggiungere qualcosa sul significato del lavoro del reporter:
<<[...] il nostro lavoro contribuisce a documentare quello che sta succedendo e spero che tutto il flusso di immagini non scarnifichi il significato del conflitto. La situazione è drammatica, ci sono veramente milioni di persone che stanno rischiando la loro vita e il futuro - mi ha sottolineato - ma anche un “bombardamento d’immagini” potrebbe abituarci alla violenza, mentre è giusto tenere presente che ci sono persone che stanno realmente soffrendo>>.
Cover photo: courtesy of ©Alfredo Bosco